Alessio Musio
La cura del mondo come cura del quotidiano.
A proposito dell’Enciclica “Laudato si’” di Papa Francesco
L’Enciclica “Laudato si’” di Papa Francesco, uscita nel 2015, prende in esame la questione ecologica come un tema capace di leggere l’intera realtà contemporanea. Se da un lato, infatti, c’è una parte del mondo che si rende conto di come la tecnologia rischi distruggere l’ambiente e la stessa condizione umana, un’altra ha il problema di avervi accesso. Mentre la prima può creare persino un’economia e un business sull’ecologia (con i prodotti a km zero, la valorizzazione del biologico ecc.), la seconda ha, invece, il problema quotidiano di non morire di fame. Sicché la prospettiva che ci si trova di fronte leggendo il testo è davvero globale – tanto che si spiegano così i riferimenti proposti a documenti (anche ecclesiali) provenienti da Paesi del mondo che non vivono secondo i canoni dell’opulenza tecnologica, subendo, però, la doppia ingiustizia dell’esclusione dal benessere e del ricadere sotto gli effetti distruttivi generati dalle società dei consumi. Così, quando i problemi sono mondiali, come quelli della sopravvivenza del nostro pianeta, e coinvolgono gli assetti economici, politici e sociali, mettendo a nudo le diseguaglianze e dunque le speranze e le frustrazioni dei popoli, si rischia di sentirsi schiacciati da un senso di impotenza. Eppure, l’impressione che si ha leggendo le parole del Papa è che la via per risolverli passi davvero per ognuno di noi.
In fondo, la connessione fra la documentazione scientifica che il Papa prende in esame, i grandi temi della crisi del paradigma tecnico-economico e l’insieme articolato dei riferimenti teologici sta a significare esattamente la necessità di mantenere questa continua compenetrazione tra la dimensione macroscopica e quella microscopica che valorizza il possibile agire di ogni singolo essere umano. Sono i gesti quotidiani, infatti, che possono cambiare il mondo, le persone, l’economia e far bene alla terra (Laudato si’, § 230).
Ed è in questo senso che l’Enciclica di Papa Francesco è, in primo luogo, una lettera scritta per ciascuno di noi, in cui la tematica ecologica è affrontata secondo una prospettiva particolare. Come spiega il sottotitolo, l’angolo visuale è, infatti, quello della Cura della casa comune che oggi ci pone di fronte a un dato empirico drammatico: il mondo, la terra, trova aperta dinnanzi a sé la possibilità della sua distruzione. Ed è l’uomo ad avere la responsabilità di questa situazione che interpella radicalmente anche la fede, nella misura in cui questa non può essere pensata come una forma di magia che annulli, come per incanto, sbagli lunghi secoli, ingannando l’orologio terrestre. Così, il tema dell’ecologia diventa una parte di un quadro più ampio che, nel discorso di Papa Francesco, coinvolge tutti gli aspetti dell’esistenza umana nel nostro tempo. E se c’è un messaggio che appare subito evidente è che l’errore più grande, il contrario stesso dell’idea di cura, è quello di assolutizzare un particolare. Tesi detta centinaia di volte – nella forma della critica agli idoli, in ambito religioso, o alle ideologie, in quello etico-politico – ma che l’Enciclica spiega a partire dall’affermazione per cui “tutto è in relazione”, “tutto è connesso”. Il che significa – ed è un punto centrale che anche l’ecologia può diventare un ecologi-smo, quando è incapace di vedere la connessione che esiste tra il tema della cura dell’ambiente e quello della cura dell’uomo, la quale, però, a sua volta non può essere intesa come un menu à la carte, da cui prendere sul piano politico ciò che più aggrada (i temi della difesa della vita ma non quelli della lotta alla povertà e alle ingiustizie economico-sociali, o viceversa).
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“Quando non si riconosce nella realtà stessa l’importanza di un povero, di un embrione umano, di una persona con disabilità – per fare solo alcuni esempi –, difficilmente si sapranno ascoltare le grida della natura stessa. Tutto è connesso. Se l’essere umano si dichiara autonomo dalla realtà e si costituisce dominatore assoluto, la stessa base della sua esistenza si sgretola, perché «invece di svolgere il suo ruolo di collaboratore di Dio nell’opera della creazione, l’uomo si sostituisce a Dio e così finisce col provocare la ribellione della natura»” (§ 117).
Ma che cosa significa questa connessione che struttura la realtà e che fa sì che non si possa affrontare l’ecologia senza l’antropologia, le questioni economico-sociali senza quelle bioetiche imposte dall’ossessivo avanzamento fagocitante delle tecno-scienze?
La realtà come “trama di relazioni”
La tesi del Papa è tutt’altro che scontata e, a ben vedere, coinvolge la rilettura dell’insegnamento di San Francesco che apre e chiude l’Enciclica (§ 1, 10-12, 66, 87, 91, 125, 218, 221). L’insistenza sulla trama di relazioni si motiva, infatti, in nome del fatto teologico per cui il fondamento stesso della realtà, Dio, è trinitario, una continua comunione relazionale, in forza della quale ogni creatura reca in sé una struttura trinitaria. Non solo l’uomo è immagine e somiglianza di Dio, quindi, ma anche nelle creature si trova un rimando, più che semplicemente al Creatore, alla Relazione tra il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo – una capacità di sguardo vertiginosa, propria solo dei grandi mistici, che non a caso il Papa ripropone attraverso il riferimento alla sensibilità francescana e ai componimenti di San Giovanni della Croce (§ 234).
Per i cristiani, credere in un Dio unico che è comunione trinitaria porta a pensare che tutta la realtà contiene in sé un’impronta propriamente trinitaria […], così reale che potrebbe essere spontaneamente contemplata se lo sguardo dell’essere umano non fosse limitato, oscuro e fragile. [Nasce così] la sfida di provare a leggere la realtà in chiave trinitaria. Le Persone divine sono relazioni sussistenti, e il mondo, creato secondo il modello divino, è una trama di relazioni. […] Tutto è collegato, e questo ci invita a maturare una spiritualità della solidarietà globale che sgorga dal mistero della Trinità (§ 239).
E probabilmente proprio qui si trova uno dei moventi dell’Enciclica, vale a dire il proposito di correggere l’immagine sbagliata per cui sarebbe il creazionismo – e quindi il Cristianesimo – ad autorizzare il dominio dell’uomo sul mondo e sulla terra (cfr. § 118 sull’antropocentrismo deviato). Ma se tutto è in relazione, questo spiega anche il dramma della vita umana che vive essa stessa di una triplice relazione: con Dio, con gli uomini e con la terra (§ 66). Sicché il peccato, spiega il Papa, è il venir meno di queste tre rapporti: non il contravvenire orgoglioso e disobbediente a un comando, quindi, ma l’allontanarsi da una relazione, e dunque l’incapacità della fiducia, della custodia. Come ha fatto tragicamente Caino (§ 70). E come rischiamo di fare superficialmente tutti i giorni, quando, immersi nella bolla mondana di un benessere anestetizzante, non avvertiamo nemmeno più le domande che derivano dal nostro non esserci fatti da noi stessi, viviamo nell’indifferenza verso chi soffre o semplicemente non ci appare desiderabile (cultura dello scarto globalmente intesa), e cediamo, infine, a una concezione proprietaria e intrinsecamente violenta di quella terra che in realtà ci è stata affidata.
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E se lo stesso Papa dice che la sua prospettiva “non è l’asfissiante richiudere nell’immanenza” (§ 119), resta da capire che esistono, in fondo, due tipi di immanentismo: quello dell’ecologi-smo assolutista, che sacrifica all’ambiente il valore dell’uomo, e quello a esso antitetico dell’antropocentrismo deviato e dispotico, che riduce le cose a pura materia totalmente utilizzabile. Con il paradosso che entrambi alimentano una stessa cultura dello scarto. Se il primo accetta, infatti, di eliminare l’uomo, che tende a vedere come il “cancro della natura”, il secondo si disfa di tutto ciò che non rientra nei suoi canoni d’interesse e progettazione. Mentre la varietà delle creature – quella che con parole contemporanee chiameremmo biodiversità – eccede la portata della comprensione umana, la quale può solo riconoscere che “ciò che manca a ciascuna cosa per rappresentare la bontà di Dio”, spiega il Papa citando Tommaso D’Aquino, è “supplito dalle altre cose, perché la sua bontà non può essere adeguatamente rappresentata da una sola creatura” (§ 86). Un’affermazione che, a ben vedere, può anche essere rovesciata dicendo che nessuna creatura è in grado di prendere nell’esistenza il posto di Dio.
Il paradosso di San Francesco
E, però, in questa Enciclica sulla dedizione alla casa comune, segnata dalla figura di San Francesco, emerge sin dalle prime battute una sorta di paradosso. Ricorda, infatti, il Papa in un rapido passaggio (§ 12) che S. Francesco voleva che una parte della terra di ogni convento restasse non curata dagli uomini, perché potesse essere il luogo della sorpresa e dell’iniziativa di Dio. La riflessione che si può fare è allora che l’atteggiamento di cura (della casa comune e quindi di ogni cosa) richiede uno sguardo che non pretenda di determinare ogni aspetto, nel nome di una sovranità assoluta su ciò che ci è affidato: la cura è il contrario della padronanza, di chi pretende di poter determinare tutto in anticipo e di sapere in anticipo e in dettaglio ciò che avverrà. Aver cura, dunque, non significa essere padroni, pretendere di determinare il corso degli eventi, ed è questo il punto evidenziato da quello che abbiamo chiamato “paradosso di S. Francesco”. Ora, questo tema è importante perché l’idea di lasciare uno spazio per la cura proprio attraverso l’astensione dall’agire e dal progettare, ha il significato di lasciar fare per l’appunto a Dio. Tesi sorprendente per l’uomo secolarizzato, se pensiamo che la nostra cultura conosce un laissez-faire di segno diverso: quello teorizzato dal modello liberista che vorrebbe lasciare il gioco economico alla mano invisibile del mercato, la quale dovrebbe risolvere da sé i suoi problemi, le sue ingiustizie e le storture. Un lasciar fare completamente differente da quello di S. Francesco, dunque, perché quello liberista – come notava Foucault – è fondamentalmente ateo. Si potrebbe dire, allora, che il vero lasciar fare consiste nel riconoscere che esiste un valore e una bellezza del creato che in qualche modo è più grande dell’uomo stesso e della sua capacità di intervento. In fondo, in queste parole c’è anche un monito alla pretesa di certi progetti scientifici che vaneggiano di “prendere in mano la regia dell’evoluzione”, pensando che senza l’intervento della davvero limitata razionalità umana non vi sia già, non solo un ordine, ma una bellezza e un significato nella vastità della terra e del cosmo.
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Al posto della straordinaria connessione della realtà sta, dunque, la possibile autoreferenzialità umana che il Papa descrive efficacemente nei termini della patologia di un relativismo significativamente reinterpretato.
La cultura del relativismo [scrive il Papa tenendo conto della situazione economico-sociale interna ed esterna alla western way of life] è la stessa patologia che spinge una persona ad approfittare di un’altra e a trattarla come un mero oggetto, obbligandola a lavori forzati, o riducendola in schiavitù a causa di un debito. È la stessa logica che porta a sfruttare sessualmente i bambini, o ad abbandonare gli anziani che non servono ai propri interessi. È anche la logica interna di chi afferma: lasciamo che le forze invisibili del mercato regolino l’economia, perché i loro effetti sulla società e sulla natura sono danni inevitabili (§ 123).
Poiché tutto è connesso, questa connessione si vede, insomma, anche in negativo nel legame patologico che lega relativisticamente fenomeni pratici e dottrine economico-politiche, alla luce del modello etico-antropologico che prescrive la ricerca della propria soddisfazione come unico fine a cui tutti gli altri divengono relativi. Un relativismo il cui solo esito possibile è, così, quella cultura dello scarto che avvolge gli uomini e le cose “in spazzatura” (§ 22). Tanto che è proprio la cultura dello scarto a diventare così il segno di quella connessione grottesca che, in forma di farsa, prende il posto nel mondo umano dell’unione autentica della realtà.
Le risposte possibili
L’Enciclica segnala come siano due le riposte praticate alla crisi ecologica. La prima è quella che di fatto banalizza i problemi, vale a dire l’idea che per risolverla si debba avere (“ancora, ancora, ancora”, direbbe Lacan) più tecnologia e più mercato. Una risposta per il Papa impercorribile perché inevitabilmente alimentata da quella cultura dello scarto che impedisce qualsiasi aver-cura tanto dell’ambiente quanto dell’umano. La seconda che, invece, prende sul serio alcuni problemi, giungendo, però, a una conclusione (propria di molti movimenti ecologisti) che considera violento l’intervento umano se non, in fondo, l’uomo in quanto tale. Tanto che occorrerebbe, stando a questa vulgata, ridurre la presenza della specie umana e favorire la denatalità (§ 60). E qui l’Enciclica finisce virtuosamente per scontentare i fronti che oggi si contrappongono: da un lato, gli ecologisti indifferenti all’abbandono mortifero degli esseri umani inadatti al modello dell’io-imprenditore-di-sé, e dall’altra, i difensori della vita indifferenti ai problemi di ingiustizia e esclusione sociale che fondono istanze pro-life a prospettive teoriche che sganciano radicalmente il mercato dall’etica e della politica. Si spiegano così le parole dure contro “l’ossessione di negare alla persona umana qualsiasi preminenza”, “l’incoerenza di chi lotta contro il traffico di animali a rischio di estinzione, ma rimane del tutto indifferente davanti alla tratta di persone, si disinteressa dei poveri o è determinato a distruggere un altro essere umano che non gli è gradito” (§ 90-91).
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Così, una tesi che emerge con forza è proprio la negazione di quell’equazione che fa coincidere la presenza stessa e l’agire dell’uomo con la forma più pericolosa di violenza sulla realtà e sull’ambiente, mentre l’uomo non è costitutivamente violento. Ma questa tesi – si capisce leggendo – non dipende dall’adesione a un qualche modello umanista, bensì, ancora una volta, dal legame stesso che Dio ha con noi, di Dio con noi, per la fedeltà di Dio nei nostri confronti (§ 205), tanto che il Papa può dire: “che meravigliosa certezza è sapere che la vita non si spende in un disperante caos” (§ 65). In fondo, è l’Incarnazione stessa la forma più grande di fiducia e di speranza nell’uomo.
Per quanto gli uomini possano, quindi, aver causato e continuino a causare gravi danni, restano allora i soggetti principali dell’aver cura, non della violenza. E il Papa ricorda come questa custodia possa avvenire nel quotidiano di ciascuno, nei piccoli gesti ecologici, come nella valorizzazione delle relazioni di tutti i giorni. A cominciare dalla famiglia perché è il luogo in cui è possibile imparare (o non imparare!) a ringraziare, scusarsi, dispiacersi, gioire, e così ad aver cura (§ 213). È come se nel suo discorso il Papa non separasse mai il piano macroscopico da quello microscopico: tutto è in relazione. E noi “siamo sempre più fecondi quando ci preoccupiamo di generare processi, piuttosto che di dominare spazi di potere” (§ 178).
Pubblicato il 29 novembre 2019
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