Laura Clerici
Dal silenzio del coma alla scoperta della vita
Nel contesto contemporaneo continua il dibattito sul cosiddetto “fine vita” e sulle condizioni ad esso connesse, come il coma e lo stato vegetativo, ma sembra avere perso i toni concitati con cui si era espresso nel periodo della grande risonanza mediatica del caso di Eluana Englaro. Affinché la compostezza della discussione non si trasformi in un tacito disinteresse, in attesa magari di riaccendersi con un nuovo caso eclatante, giunge a proposito la pacata testimonianza del libro di Fulvio De Nigris Sento che ci sei. Dal silenzio del coma alla scoperta della vita.
L’Autore, direttore del centro studi per la ricerca sul coma “Gli amici di Luca” e membro dell’Osservatorio nazionale sulla condizione delle persone con disabilità, presenta se stesso con molta semplicità, come un giornalista, un genitore, un padre che ha perso un figlio dopo un lungo coma, ma anche come una persona che, suo malgrado o per fortuna, è venuta a contatto con la malattia e la sofferenza e ha fatto di questa esperienza una risorsa.
Luca De Nigris all’età di 15 anni entra in coma dopo un intervento chirurgico che, nel percorso terapeutico, avrebbe preceduto un’operazione più complessa alla colonna vertebrale, risolutiva per molti dei problemi legati alla sua condizione di paziente idrocefalo. Dopo otto mesi avviene l’atteso risveglio dal coma, seguito però a breve distanza da una morte inaspettata. Di fronte a questa vicenda dolorosa la sua famiglia non sceglie la strada della recriminazione, ma intraprende un cammino di solidarietà e collaborazione, che si traduce nel progetto “La Casa dei Risvegli Luca De Nigris”; ricordando il giorno dell’inaugurazione di questa struttura, l’Autore dà inizio ad un racconto che ci porta subito a Luca, figlio perduto e protagonista silenzioso del libro.
Di Luca ci vengono presentati alcuni ritratti: un’immagine in divenire, quella di un bambino nato con importanti problemi di salute ma diventato ragazzo in modo allegro e coraggioso, capace di legare a sé il padre in una complicità ad un tempo ironica e seria; poi un’immagine sospesa in un altrove misterioso, lo stato di coma conseguente all’esito imprevedibile (è la risposta “non scientifica” della scienza) di un intervento chirurgico di routine. Infine il ritratto più doloroso, quello estremo della morte, che nel ricordo dell’Autore è come addolcito dalla carezza del tulle leggero che lo ricopre.
Tra queste immagini si fa spazio l’esperienza quasi miracolosa del risveglio che, come afferma De Nigris, non riguarda solo chi è in coma o in stato vegetativo, ma anche chi gli sta intorno, perché queste gravissime condizioni patologiche hanno a che fare con la vita, non con la morte.
La prima delle tre parti in cui il testo è suddiviso è intessuta sul rapporto tra il padre e il figlio e sulla ricerca di un contatto in condizioni che cambiano radicalmente i codici della comunicazione. Comunicare con chi si ama è un problema vitale: lo è anche nella malattia e diventa un’esigenza insopprimibile di fronte al vuoto della perdita perché, dice De Nigris, la perdita di un figlio destabilizza i contatti con il mondo.
Riprendere il filo di un dialogo interrotto, ricercare il calore di un contatto perduto: questi sono i motivi di un viaggio compiuto attraverso esperienze in bilico tra mondi diversi, tra evocazioni di medium e voci dell’aldilà. Un viaggio non sottoposto dall’Autore ad una critica razionale, ma vissuto e accettato nell’umanità delle sue istanze dolorose; comunque concluso, con la consapevolezza che l’ansia del ritrovamento va superata, perché coloro che amiamo restano dentro di noi.
Con l’avvio della seconda parte il tono della scrittura cambia e da racconto diviene dialogo : l’Autore parla a chi legge e ha vissuto (o potrà vivere) un’esperienza simile alla sua, l’intensità emotiva cresce passando da un generico “voi” al “tu” della confidenza e la descrizione di quanto accaduto si fa evocazione, consiglio, esortazione.
La possibilità di comunicare, cioè di capire e di farsi capire, resta per De Nigris il cuore delle questioni legate alle condizioni di disabilità estrema: come è possibile comunicare con chi è in coma, ma anche come si può comunicare il coma senza cadere in immagini stereotipate che tradiscono la realtà? Se, come dice l’Autore, noi siamo in quanto relazione, il coma di una persona cara, troncando improvvisamente la nostra relazione con lei, spezza anche il nostro essere, che va con pazienza ricomposto sviluppando un nuovo rapporto con quella che, a tutti gli effetti, è una persona nuova, radicalmente cambiata.
Nella ricerca di una risposta capace di rimuovere la lontananza si attua un coinvolgimento totale del proprio essere: parlare, cantare, ma soprattutto sentire, toccare, baciare sono le cose che si possono fare quando ci si domanda “come comunico?”. È in questo contesto di intensa affettività che prende corpo l’espressione che dà il titolo al libro: sento che ci sei.
Chi si occupa di comunicare il coma esce invece dalla rete degli affetti e delle emozioni, ponendosi su un piano differente: quello della cultura medico scientifica, che spesso parla il linguaggio del tecnicismo e interpreta i sorrisi e i piccoli segni di avvenuto contatto come movimenti riflessi, riducendo ad illusione la speranza di chi attende un risveglio della persona cara. L’Autore sottolinea l’esistenza di due culture, che si traducono in due differenti modi di curare e che sostanzialmente vanno ricondotte a due esperienze diverse: sapere del coma e vivere il coma (ma gli studi scientifici più recenti, quelli che sanno il coma, invitano ad andare verso la cultura dell’affetto, quella che sente che il paziente c’è).
La consapevolezza della competenza naturale che la famiglia che vive il coma sa esprimere sul campo consente a De Nigris di avviare il coraggioso progetto della Casa dei Risvegli: servono nuove strutture per un’alleanza terapeutica con le famiglie, perché la proposta che si può anteporre al testamento biologico deve essere un sistema famiglia allargato ad affetti, competenze e solidarietà. In un contesto che registra l’aumento dell’incidenza dei casi di coma, occorre ampliare il concetto di riabilitazione, superando le strettoie di una normalità pensata all’insegna della perfezione: come provocatoriamente dice Alessandro Bergonzoni nella Prefazione, sono i non coinvolti e i “sani cronici” ad avere bisogno di un risveglio per poter accedere alle profondità dell’altro.
L’Autore prende quindi posizione nel dibattito in corso, osservando come il testamento biologico sia una soluzione che rinuncia a formule collaborative, portando al rischio di pericolose generalizzazioni; nella polemica tra libertà di scelta e diritto di cura, le esigenze dei soggetti deboli non possono essere tutelate.
L’ultima parte del libro raccoglie una serie di testimonianze, qualcuna già nota al pubblico, altre non conosciute, ma tutte cariche di significato pur nella diversità del vissuto e degli esiti; ogni storia concorre ad una storia più grande, questo sembra essere l’insegnamento di Luca, purché non si viva passivamente il proprio destino. Nessuna storia è inutile, ma bisogna mantenerla viva con il ricordo; un’eco foscoliana? Forse qualcosa di più, perché il destino di Luca non è stato scolpito sulla pietra di un monumento, ma ha dato vita ad un luogo dove affetto e tenerezza non sono solo memoria, bensì un modo di prendersi cura: la Casa dei Risvegli, luogo della vita e delle arti.
pubblicato il 13 aprile 2012
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