Sofia Della Casa. Michel Foucault e il proprium della filosofia

"Ma cosa è dunque la filosofia, oggi, voglio dire l’attività filosofica se non è lavoro critico del pensiero su se stesso? Se non consiste, invece di legittimare ciò che si sa già, nel cominciare a sapere come e fino a qual punto sarebbe possibile pensare in modo diverso?"
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Sofia Della Casa

Michel Foucault e il proprium della filosofia

  

“Ma cosa è dunque la filosofia, oggi, voglio dire l’attività filosofica se non è lavoro critico del pensiero su se stesso? Se non consiste, invece di legittimare ciò che si sa già, nel cominciare a sapere come e fino a qual punto sarebbe possibile pensare in modo diverso?”

(Michel Foucault, L’uso dei piaceri)

 

Sono trascorsi quarant’anni dalla morte di Foucault, maître à penser del Ventesimo secolo, eppure la sua eredità filosofica è – ancora oggi – attuale e necessaria per individuare gli snodi problematici del presente. Un itinerario riflessivo originale quello di Foucault, che passa attraverso una serrata analisi critica – dal taglio fortemente storico, sociologico e politico – sul ruolo fondamentale delle istituzioni economiche, politiche, educative e mediche, con una attenzione per la costituzione dell’individuo contemporaneo e la comprensione della sua identità personale e sociale. Tre gli assi portanti del suo complesso apparato teorico: sapere, potere e soggettività. Foucault, infatti, aspira a comprendere l’attualità e l’individuo sia attraverso l’analisi di esperienze peculiari, come la follia, la medicina e la sessualità, peraltro tracciando sentieri non ancora percorsi dalla filosofia, ma anche mettendo in discussione nozioni filosofiche tradizionali quali il potere, il soggetto e la verità. Il suo pensiero sovversivo può essere impiegato, come lui stesso dichiarava, come una “cassetta degli attrezzi”[1] volta a fornire strumenti investigativi per intercettare e analizzare criticamente le trasformazioni dell’esperienza umana, “smontando” e mettendo in discussione ciò che accade nella realtà quotidiana, allo scopo di costruire nuove forme di pensiero e pratiche d’azione.

Nato a Poitiers nel 1926 da una ricca famiglia borghese di chirurghi, Paul-Michel Foucault onora la tradizione familiare sostituendo il bisturi con la penna, intervenendo sul «corpo vivo»[2] della filosofia per far riemergere le verità occultate dalla filosofia: «Sono un medico – dichiara Foucault– diciamo che sono un diagnostico. Voglio fare una diagnosi e il mio lavoro consiste nel portare alla luce, attraverso l’incisione della scrittura, qualcosa che sia la verità do ciò che è morto»[3]. Pensatore affilato e incisivo, per lui la filosofia è anzitutto una riflessione critica del pensiero su se stesso e, più ancora, una “forma di pensiero” la cui portata critica trascende l’ambito puramente teoretico, in quanto pratica di vita che rimette continuamente in discussione l’essere del soggetto e si insinua, trasformandola, nella stessa esperienza umana.

La macchina analitica di Foucault, infatti, spinge insistentemente la riflessione filosofica sul terreno di un’ontologia del presente che aspira a configurarsi come «un’ontologia critica di noi stessi», laddove come dirà: «la critica di quello che siamo è, al tempo stesso, analisi storica dei limiti che ci vengono posti e prova del loro superamento possibile»[4]. La filosofia con lui si risolve, dunque, en general in una sorta di atteggiamento, appunto in una “forma di pensiero” che si intreccia indissolubilmente con una continua messa alla prova – attraverso una modalità etica di stilizzazione esistenziale – di un soi-même, comunque sempre alle prese con il problema della soggettivazione.

«Per pensiero – afferma Foucault nella lezione del 5 gennaio 1983 tenuta al Collège de France – intendevo una disamina di quelli che si potrebbero chiamare focolai d’esperienza, nella quale essi si articolano gli uni sugli altri: in primo luogo le forme di un sapere possibile; in secondo luogo le matrici normative di un comportamento per gli individui; e infine dei modi di esistenza virtuali per dei soggetti possibili»[5].

La nozione di esperienza, infatti, è una categoria centrale non solo nel suo impianto filosofico, ma anche a livello biografico.  In una nota intervista del 1978 aveva, per esempio, già spostato l’attenzione sugli aspetti esperienziali del suo lavoro filosofico: «Un’esperienza – sostiene Foucault– è qualcosa da cui si esce trasformati. Se dovessi scrivere un libro per comunicare ciò che ho già pensato, non avrei mai il coraggio di cominciarlo. Io scrivo proprio perché non so ancora cosa pensare di un argomento che attira il mio interesse. Facendolo, il libro mi trasforma, muta ciò che penso; di conseguenza ogni nuovo lavoro cambia profondamente i termini di pensiero cui ero giunto con quello precedente. In questo senso io mi considero più uno sperimentatore che un teorico, non sviluppo sistemi deduttivi da applicare uniformemente a campi diversi di ricerca. Quando scrivo, lo faccio soprattutto per cambiare me stesso e non pensare più la stessa cosa di prima»[6].

Questa radicale esigenza di trasformazione rende inevitabilmente l’itinerario filosofico di Foucault sempre discontinuo. I molti nodi di riflessione gli sono, infatti, necessari in quanto finalizzati a diagnosticare il presente culturale attraverso l’analisi di esperienze “altre”: la follia, la malattia mentale, la criminalità e la sessualità. Esperienze vissute, queste, eppure sempre in qualche modo portate fuori norma, che incrinano le certezze antropologiche della filosofia, indagando la condizione umana all’interno di istituzioni assoggettanti, in cui il dato della soggettività e della libertà viene continuamente problematizzato. Ed è, infatti, così che Foucault delinea un’originale metodologia archeologico-genealogica, rivestita in forma di «attivismo pessimistico»[7]; ne viene un metodo puntualmente affidato a una penna affilata come un bisturi che, oltrepassando gli esiti della fenomenologia – ma anche dello strutturalismo e dell’ermeneutica, ritenuti insufficienti per la comprensione dell’esperienza umana –  è volta a ricercare gli effetti del sapere e del potere su noi stessi, sulla nostra individualità e sull’immagine personale e sociale che ci costruiamo.

Foucault, insomma, inquadra le sue riflessioni all’interno di solide griglie analitiche, passando, negli anni, dalle pratiche discorsive degli anni ’60 – con interessi più epistemologici che lo spinsero ad indagare la costituzione della malattia e la follia come oggetti scientifici – ai celebri studi sulle tecnologie di potere degli anni ’70, fino ad arrivare, negli ultimi snodi del suo itinerario speculativo, all’analisi del processo di soggettivazione dell’individuo moderno a partire dalle pratiche di sé nel mondo antico[8].

Un pensiero filosofico che, pur nella sua pluralità tematica, è comunque sempre sorretto e delineato in precise griglie storiche, che forniscono un terreno di comprensione, ma anche di scontro. I temi sono, dunque, sempre incernierati ad uno stipite storico.  Nella sua tesi di dottorato, Storia della follia nell’età classica (1961)[9] – oggi un classico della filosofia – Foucault traccia una genealogia del concetto di follia, evidenziando il passaggio dalla sua percezione come condizione marginale ma accettata in età medievale e rinascimentale, alla sua esclusione e reclusione nell’età classica (XVII-XVIII secolo), fino ad arrivare alla sua medicalizzazione nel XIX secolo.

L’età classica torna protagonista ne Le parole e le cose (1966)[10], in cui Foucault questa volta concentra la sua analisi sulle trasformazioni storiche dei sistemi di pensiero e conoscenza, con particolare attenzione all’evoluzione delle scienze umane e alla trasformazione delle categorie epistemologiche. Una periodizzazione che è poi ripresa anche in Nascita della clinica (1963)[11], un’opera complessa in cui analizza l’evoluzione della medicina moderna tra il XVIII e il XIX secolo, concentrandosi sulla nascita di quell’approccio clinico alla malattia fondato sull’osservazione empirica del corpo, per poi inclinare il piano di riflessione su come proprio tale trasformazione del sapere scientifico abbia ridefinito lo sguardo medico, ristrutturando drammaticamente il rapporto tra medico e paziente.

Solide cornici storiche – con una grande attenzione all’Ottocento – tornano, inoltre, in diversi suoi lavori di taglio sociologico, specialmente in Sorvegliare e punire (1975)[12], in cui analizza l’evoluzione delle pratiche punitive, dalla tortura pubblica ai moderni sistemi carcerari, analizzando la trasformazione del paradigma punitivo: dalle pratiche di controllo più violente e “visibili”, si passa a tecniche disciplinari di assoggettamento più “invisibili” che penetrano in modo capillare il corpo e la mente. Ed è sempre da una prospettiva storica, ma questa volta spostandosi di piano, vale a dire dal moderno al contemporaneo, che Foucault arriva a occuparsi del potere. In particolare, a partire da La volontà di sapere (1976)[13], primo volume della sua Storia della sessualità; opera, questa, in cui viene concettualizzato il potere per la prima volta come biopotere, descrivendolo come una forma politica che amministra e gestisce i corpi, sia a livello individuale che sociale, per arrivare poi a dimostrare come questa regoli la sessualità degli individui.

Foucault tornerà poi sul medesimo tema anche in Nascita della biopolitica[14], esito del suo corso tenuto al Collège de France tra il 1978 e il 1979; un’opera in cui si concentra sul Ventesimo secolo, in particolare sugli anni Settanta, descrivendo quegli scenari storici in cui con il neoliberismo si afferma come nuova forma di razionalità governativa e, al contempo, come  di una governance economica che rende, nei fatti, possibile lo sviluppo del potere in quanto “biopolitico”, cioè strutturato sulla base di insidiose pratiche di governo – come il controllo della natalità o la sorveglianza delle malattie – che mirano a ad amministrare intere popolazioni.

Ed è negli ultimi anni della sua riflessione, che Foucault si dedica ad un appassionato studio del mondo antico, in particolare negli ultimi corsi tenuti al Collège de France[15]; uno sforzo interpretativo, il suo, finalizzato sia ad un’analisi genealogica di ricostruzione del processo di soggettivazione – ossia delle modalità etico-politiche mediante cui l’individuo si riconosce come tale e si relaziona con gli altri – che ad un’indagine del rapporto tra il soggetto e la verità, con particolare attenzione al nesso tra la conoscenza e la cura di se stessi.

Pur tuttavia, Foucault non è solamente un filosofo-storico: una tale etichetta non gli può rendere giustizia. È stato – anche e anzitutto – un filosofo politico: il suo pensiero, infatti, è pur sempre alimentato e sostenuto da finalità eminentemente politiche.

Ed è a partire dagli anni’70 che Foucault diventa l’emblema della figura dell’intellettuale militante, manifestando un impegno profondamente pragmatico nei dilemmi sociali: si pensi, ad esempio, all’esperienza del GIP, il Gruppo di Informazioni sulle Prigioni, in cui la questione carceraria assume un ruolo centrale e ineludibile all’interno della critica sociale.  Da qui un impegno filosofico e politico che è costantemente finalizzato ad aprire nuovi spazi di libertà e di cambiamento in ambito sociale. A tale proposito, in occasione di un’intervista, e nel tentativo di spiegare la sua idea di filosofia, avrebbe poi dichiarato: «Il mio ruolo è quello di far vedere alle persone come esse siano più libere di quello che pensano, e di mostrare loro come esse considerino vero ed evidente ciò che in realtà è stato costruito in un determinato momento della storia, sicché quella presunta evidenza può essere sottoposta a critica e distrutta. Produrre un qualche cambiamento nella mente delle persone: questo è il compito dell’intellettuale»[16].

Foucault vuole, quindi, risvegliare coloro che sono sprofondati in un sonno dogmatico fatto di placide certezze, anzitutto distruggendo l’idea di un soggetto costituente, sovrano e fondatore: un soggetto di matrice cartesiana, posto a fondamento della realtà, trasparente a se stesso, padrone della verità, e donatore di senso[17]. Tuttavia, per Foucault – il cui interesse centrale non sono le dinamiche di potere, ma l’analisi delle modalità di oggettivazione e soggettivazione dell’umano[18] – l’individuo è pur costituito dall’esterno: ed è sempre, in qualche modo, l’esito incerto e indefinito di costruzioni discorsive e di pratiche sociali, in quanto catturato e plasmato dalle maglie impalpabili, ma costituenti, del sapere-potere.

La verità stessa, nella sua presupposta universalità, nella prospettiva foucaultiana ha in realtà delle matrici esperienziali: non è heideggerianamente “disincarnata”, ma implica sempre certi “giochi” di produzione[19]. Alla verità «apofantica», Foucault contrappone una visione di matrice nietzschiana: la verità è «suscitata» e «braccata», è una «verità-evento», che si può afferrare attraverso un rapporto d’«urto», un rapporto «simile a quello tra il fulmine e il lampo»[20]. Il rapporto tra il soggetto e la verità, insomma, non è più giocato in termini di conoscenza e di scoperta, ma di lotta e strategie di potere.

La riflessione sui processi di costituzione dell’individuo non si arresta, tuttavia, ad una visione assoggettante dell’umano: del resto, per Foucault, l’uomo non è mai esclusivamente un mero effetto e prodotto dell’intreccio tra potere e sapere, ma può – e deve – costruire se stesso in modo libero, attivo e autonomo tra gli altri.Ci sono, insomma, ancora spazi possibili di libertà, autonomia e margini d’azione politica nell’epoca della biopolitica, a patto di delineare una differente visione antropologica: il soggetto non è già dato acriticamente a se stesso né, tanto meno, pacificamente tra gli altri. L’esercizio responsabile della libertà si pratica, anzitutto, all’interno di quotidiane pratiche politiche di resistenza, perché dove c’è potere ci sono sempre «focolai di resistenza»[21], a fronte della tempra dura del soi-même che fa attrito contro quei sistemi sociali e istituzionali di dominio che costruiscono la nostra identità.

Una capacità di resistenza politica che affiora in quel “conosci te stesso” – che Foucault recupera nei suoi ultimi lavori – e che si delinea attraverso pratiche estetiche, perché come recita l’antico monito socratico: la conoscenza di noi stessi e l’esercizio politico della libertà implicano sempre un costante lavoro di cura e auto-sorveglianza sul sé. Un lavoro etico-estetico che, quindi, si configura come una complessa esperienza di trasformazione autonoma e dalla fondamentale valenza e finalità politica: «Forse oggi – scrive Foucault – l’obiettivo principale non è di scoprire che cosa siamo, ma piuttosto di rifiutare quello che siamo […] La conclusione potrebbe essere che il problema politico, etico, sociale e filosofico oggi, non è tanto liberare l’individuo dallo Stato, e dalle sue istituzioni, quanto di liberare noi stessi sia dallo Stato che dal tipo di individualizzazione che è legato allo Stato. Occorre promuovere nuove forme di soggettività attraverso il rifiuto di quel tipo di individualità che ci è stato imposto per così tanti secoli»[22].

Foucault muore prematuramente a Parigi nel 1984, lasciando incompiuto il suo progetto genealogico di analisi di quell’individuo moderno che è da leggere non solo come oggetto di indagine scientifica, ma anche come soggetto attivo di pratiche di libertà.Emblematiche le parole del suo più importante maestro, lo storico e filologo francese Georges Dumézil: «L’intelligenza di Foucault era letteralmente senza limiti, persino sofisticata. Aveva installato il suo osservatorio sulle zone dell’essere vivente in cui le distinzioni tradizionali del corpo e della mente, dell’istinto e delle idee, apparivano assurde: la follia, la sessualità, il crimine. Da lì, il suo sguardo girava come un faro sulla storia e sul presente, pronto alle scoperte meno rassicuranti, capace di accettare tutto, tranne di fermarsi all’ortodossia. Un’intelligenza dai molti strati, dagli specchi mobili, un’intelligenza in cui al giudizio nascente si sommava subito il suo contrario, senza tuttavia distruggersi né arretrare. Tutto questo, come d’abitudine a questi livelli, su un fondo di estrema benevolenza e bontà […] Ritirandosi, Michel Foucault mi lascia un po’ più sguarnito, e non solo degli ornamenti della vita: della sua stessa sostanza»[23].

Leggere Foucault, del resto, provoca un effetto dirompente, quasi straniante; il lettore è colto da un penetrante senso di disorientamento esistenziale e di “terrore” sociale che, tuttavia, non ne paralizza la coscienza, bensì la risveglia!

Il processo foucaultiano di decostruzione delle certezze cristallizzate del pensiero non precipita mai in un nichilismo mortificante e senza speranza, anzi fa scorgere nuove possibilità di pensiero, inediti spazi politici, e nuove pratiche di azione per sperimentare e trasformare responsabilmente noi stessi tra gli altri.Il filosofo francese – va detto – non traccia strade ben definite per realizzare questo cambiamento culturale, anzi ci lascia da percorrere un cammino ancor più tortuoso; eppure, il suo sguardo lucido e critico sui fenomeni dell’attualità può essere impiegato come un efficace strumento teoretico per assumersi il coraggio di ri-orientare continuamente la rotta verso quel mare nietzschiano, sempre pericoloso e incerto, della conoscenza di noi stessi.L’atteggiamento critico foucaultiano, infatti, non è semplicemente decostruttivo, ma in-forma lo sguardo verso una differente etica del soggetto e delle relazioni.

Foucault ha il diritto, perciò, di essere ricordato come un pensatore capace, ancora oggi, di “diagnosticare” i fenomeni dell’attualità e di “accendere fuochi”.Con la forza della sua penna tratteggia in modo efficace, e sovente con sfumature poetiche, quello che per lui è l’atteggiamento critico che dovrebbe essere il proprium della filosofia, ossia, per dirla con le sue stesse parole: «Non posso fare a meno di pensare a una critica che non cerchi di giudicare, ma di far esistere un’opera, un libro, una frase, un’idea; accenderebbe dei fuochi, guarderebbe crescere l’erba, ascolterebbe il vento e prenderebbe al volo la spuma del mare per disperderla. Riprodurrebbe, invece che dei giudizi, dei segni di vita; li chiamerebbe, li strapperebbe dal loro sonno. Talvolta li inventerebbe? Tanto meglio, tanto meglio. La critica sentenziosa mi fa addormentare; vorrei una critica fatta di scintille di immaginazione. Non sarebbe sovrana, né vestita di rosso. Porterebbe con sé i lampi di possibili tempeste»[24].

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NOTE

 

[1] M. Foucault, Des supplices aux celles, in “Le Monde”, 21 febbraio 1975 (e in Dits et écrits, vol. 2, testo n. 151, p. 716).

[2] M. Foucault, L’uso dei piaceri. Storia della sessualità, vol. 2., trad. it. di L. Guarino, Feltrinelli, Milano 2022, p. 14.

[3] Michel Foucault à Claude Bonnefoy, collana “À voix haute”, Gallimard/ France Culture, Paris 2006.

[4] M. Foucault, Che cos’è l’Illuminismo (1984), in Id., Archivio Foucault. Interventi, colloqui, interviste, 3. 1978-1985, A. Pandolfi (a cura di), Milano 2020, p. 231.

[5] M. Foucault, Il governo di sé e degli altri. Corso al Collège de France (1982-1983), trad.it. di M. Galzigna, Feltrinelli, Milano 2022, pp. 12-13. Corsivo di chi scrive.

[6] M. Foucault, Esperienza e verità. Colloqui con Duccio Trombadori, Castelvecchi, Roma 2018, pp. 27-28.

[7] M. Foucault, Sulla genealogia dell’etica: compendio di un work in progress in H. L. Dreyfus – P. Rainbow, La ricerca di Michel Foucault. Analitica della verità e storia del presente, trad. it. di D. Benati, M. Bertani e I. Levrini, Ponte alle Grazie, Firenze 1989, p. 259.

[8] Cfr. M. Foucault, L’uso dei piaceri. Storia della sessualità, vol. 2., trad. it. di L. Guarino, Feltrinelli, Milano 2022, pp. 11-12.

[9] M. Foucault, Storia della follia nell’età classica, M. Galzigna (a cura di), Rizzoli, Milano 2018.

[10] M. Foucault, Le parole e le cose. Un’archeologia delle scienze umane, trad. it. di E. Panaitescu, Rizzoli, Milano 2014.

[11] M. Foucault, Nascita della clinica. Una archeologia dello sguardo medico, A. Fontana (a cura di), Einaudi, Torino 1998.

[12] M. Foucault, Sorvegliare e punire. Nascita della prigione, trad.it. di A. Tarchetti, Einaudi, Torino 2014.

[13] M. Foucault, La volontà di sapere. Storia della sessualità, vol 1., trad.it. di P. Pasquino e G. Procacci, Feltrinelli, Milano 2022.

[14] M. Foucault, Nascita della biopolitica. Corso al Collège de France (1978-1979), trad. it di M.Bertani e V. Zini, Feltrinelli, Milano 2023.

[15] Si veda, in particolare, M. Foucault, L’ermeneutica del soggetto. Corso al Collège de France (1981-1982), trad. it. di M. Bertani, Feltrinelli, Milano 2021, ID., Il governo di sé e degli altri. Corso al Collège de France (1982-1983), M. Galzigna (a cura di), Feltrinelli, Milano 2022, ID., Il coraggio della verità. Il governo di sé e degli altri II. Corso al Collège de France (1984), M. Galzigna (a cura di), Feltrinelli, Milano 2022.

[16] M. Foucault, Verità, potere, sé. Intervista a Michel Foucault, 25 ottobre 1982 in Id., Tecnologie del sé, L. H. Martin, H. Gutman e P. h. Hutton (a cura di), trad. it. di S. Marchignoli, Bollati Boringhieri, Torino 2020, p. 4.

[17] Cfr. M. Foucault, Sull’origine dell’ermeneutica del sé. Due conferenze al Dartmouth College, Materiali foucaultiani (a cura di), Cronopio, Napoli 2014, pp. 33-34.

[18] M. Foucault, Perché studiare il potere: la questione del soggetto, in H. L. Dreyfus – P. Rainbow, La ricerca di Michel Foucault. Analitica della verità e storia del presente, trad. it. di D. Benati, M. Bertani e I. Levrini, Ponte alle Grazie, Firenze 1989, p. 237.

[19] Cfr. M. Foucault, Il potere psichiatrico. Corso al Collège de France (1973-1974), trad.it. di M. Bertani, Feltrinelli, Milano 2004, p. 211.

[20] Ibi, p. 212

[21]M. Foucault, La volontà di sapere, p. 85.

[22] Ibi, p. 244.

[23] D. Eribon, Michel Foucault. Il filosofo del secolo. Una biografia, trad. it. di L. Alunni, Feltrinelli, Milano 2021, p. 385.

[24] M. Foucault, Il filosofo mascherato (1980) in Id., Archivio Foucault. Interventi, colloqui, interviste, 3. 1978-1985, A. Pandolfi (a cura di), Milano 2020, p. 140.

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