Jean Paul Sartre – L’essere e il nulla e il tema della “mia morte”

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Jean Paul Sartre

Proponiamo alcuni paragrafi tratti dalla Parte Quarta, AVERE, FARE ESSERE, di

JEAN-PAUL SARTRE, L’ESSERE E IL NULLA . Saggio di ontologia fenomenologica

Traduzione di Giuseppe del Bo Revisione a cura di Franco Fergnani e Marina Lazzari

© Libraire Gallimard, Paris 1943

© il Saggiatore, Milano 1965

© il Saggiatore, Milano 1997 Prima edizione EST, 1997

Titolo originale: L’ètre et le néant

 

 

 

  1. E) La mia morte

Dopo che la morte è apparsa come l’inumano per eccellenza, perché rappresenta ciò che vi è al di là del «muro», si è cominciato a conside- rarla tutto d’un tratto da un altro punto di vista, cioè come un avveni

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mento della vita umana. Questo cambiamento si spiega benissimo: la morte è un termine ed ogni termine (sia esso finale o iniziale) è un Janus bifrons: sia che lo si consideri come aderente ad un nulla di esse- re che limiti il processo considerato, sia, invece, che lo si scopra come saldato alla serie che termina, come un essere appartenente ad un pro-cesso esistente e che sotto un certo aspetto ne costituisce il significato. Così l’accordo finale di una melodia è rivolto, per un lato, verso il silenzio, cioè verso il nulla di suono che seguirà la melodia; in un certo senso è fatto col silenzio, perché il silenzio che seguirà è già presente nell’accordo di risoluzione, come suo significato. Ma, da un altro lato, aderisce al plenum d’essere che è la melodia considerata: senza di esso la melodia resterebbe in sospeso e la indecisione finale risalirebbe a ritroso di nota in nota, per conferire a ciascuna di loro un carattere incompiuto . La morte è sempre stata considerata – a torto o a ragione, non possiamo ancora dirlo  – come il termine finale della vita  umana. In quanto tale, era  naturale che una filosofia, soprattutto preoccupata  di precisare la  posizione umana in  rapporto all’inumano assoluto che la circonda, considerasse dapprima la morte come una porta aperta sul nulla della realtà-umana, qualunque poi fosse questo nulla, o la cessa- zione assoluta dell’essere o l’esistenza sotto una forma  non-umana. Così potremo dire che c’è stata – in correlazione con le grandi teorie realiste – una concezione realista della morte, in quanto questa appari- va come un contatto immediato col non -umano; con ciò sfuggiva all’uomo, mentre lo foggiava con dell’assoluto non-umano. Evidente – mente, era impossibile per una concezione idealista e umanista della realtà, tollerare che l’uomo incontrasse l’inumano, pur semplicemente come suo limite. Sarebbe stato allora sufficiente porsi dal punto di  vista di questo limite per chiarire l’uomo con una luce non-umana.1 Il tentativo idealista per recuperare la morte non è stato in origine compi- to dei filosofi, ma quello di poeti come Rilke o di romanzieri come Malraux. Bastava considerare la morte come termine ultimo che appar-teneva alla serie. Se la serie recupera così il suo «terminus ad quem» precisamente a causa di questo «ad» che ne sottolinea l’interiorità, la morte come fine della vita si interiorizza e si umanizza: l’uomo non   può più incontrare che l’umano; non vi è più un altro lato  della vita, e la morte è un fenomeno umano, il fenomeno ultimo della vita, vita ancora. Come tale, influenza «contro-corrente» tutta la vita; la vita si limita con la vita, diventa come il mondo di Einstein «finita ma illi- mitata»; la morte diventa il senso della vita come l’accordo di risolu-

  1. Vedi il platonismo realista di Morgan nel Bosco d’amore.

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zione è il senso della melodia; in questo non c’è nulla di miracoloso: la morte è uno dei termini della serie considerata e, come è noto, ogni termine di una serie è sempre presente a tutti gli altri. Ma la morte così recuperata non resta solamente umana, diventa  mia; interiorizzandosi si individualizza; non è più il grande sconosciuto che limita l’umano, ma è il fenomeno della mia vita personale che fa di questa vita una vita unica, cioè una vita che non ricomincia, dove non si può mai tornare indietro. Con ciò divento responsabile della mia morte come della mia vita. Non del fenomeno empirico e contingente del mio trapasso, ma del carattere di finitezza che fa sì che la mia vita, come la mia morte,  sia la mia vita. È appunto in questo senso che Rilke si sforza di mostrare che la fine di ogni uomo è simile alla sua vita, perché tutta la vita individuale è stata preparazione di questa fine; è in questo senso che  nei Conquistatori Malraux dimostra che la cultura europea, dando a certi asiatici il senso della morte, li compenetra immediatamente di questa verità disperante e snervante che «la vita è unica». Era riservato ad Heidegger di dare una forma filosofica a questa  umanizzazione della morte: se il Dasein non subisce nulla, proprio perché è progetto  ed anticipazione, deve essere progetto e anticipazione della propria morte come possibilità di non realizzare più una presenza nel mondo. Così la morte è diventata la possibilità propria del  Dasein, l’essere della realtà umana si definisce come «Sein zum Tode». In quanto il Dasein decide del suo progetto verso la morte, realizza la libertà-per- morire e costituisce se stesso come totalità mediante la libera scelta della finitezza.

Una teoria simile, a quanto sembra, non può che sedurci: interiorizzando la morte, serve ai nostri disegni: il limite apparente della nostra libertà interiorizzandosi è recuperato dalla libertà. Tuttavia né la como- dità di queste visuali, né la parte incontestabile di verità che racchiudono ci devono sviare; bisogna riprendere dall’inizio l’esame della questione.

È certo che la realtà-umana, per cui la «mondanità» viene al reale, non può incontrare l’inumano; il concetto di inumano è anch’esso un concetto d’uomo. Anche se la morte in-sé fosse un passaggio ad un assoluto non umano, bisogna dunque abbandonare ogni speranza di considerare la morte come una finestra su questo assoluto.  La  morte  non ci rivela nulla che su di noi stessi e da un  punto  di vista  umano.  Ciò significa forse che appartiene a priori alla realtà  umana?  Quello  che bisogna fin d’ora osservare è il carattere assurdo della morte. In questo senso ogni tentativo di considerarla come un accordo di risoluzione che conclude una melodia, deve essere rigorosamente scartato. Si è

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sovente detto che noi siamo nella situazione di un condannato a morte, in mezzo ad altri condannati, che non conosce il giorno della  sua esecuzione, ma vede ogni giorno giustiziare i suoi compagni di prigione. Ciò non è però del tutto esatto: bisognerebbe piuttosto confron- tarci ad un condannato a morte che si prepara coraggiosamente all’ulti- mo supplizio, che ci mette tutto il suo impegno per far bella figura sul patibolo e che nel frattempo è portato via da una epidemia di febbre spagnola. Ecco ciò che ha capito la saggezza cristiana, che raccomanda di prepararsi alla morte come se questa potesse sopravvenire da un momento all’altro. Così si spera di recuperarla trasformandola in «morte attesa». Se il senso della nostra vita diventa l’attesa della morte, questa sopravvenendo, non può che apporre il suo sigillo sulla vita. È questo infine ciò che vi è di più positivo nella «decisione risoluta» (Entschlossenheit) di Heidegger. Purtroppo sono dei consigli più facili da dare che da seguire, non a causa di una debolezza naturale alla realtà-umana o di un progetto originale di inautenticità, ma della morte stessa. Si può infatti attendere una morte particolare, ma non la morte. La scappatoia di Heidegger si scopre facilmente: comincia coll’individualizzare la morte di ciascuno di noi, indicandoci che è la morte di  una persona, di un individuo; la «sola cosa che nessun altro possa fare in vece mia»: in conseguenza di ciò utilizza l’individualità incomparabi- le che ha conferito alla morte partendo dal Dasein per individualizzare  il Dasein stesso: proiettandosi liberamente verso la sua possibilità ulti- ma, il <<Dasein» aderirà all’esistenza autentica e si strapperà alla banalità quotidiana per raggiungere l’unicità insostituibile  della  persona. Ma questo è un circolo vizioso: come si fa a provare che la morte ha questa individualità ed il potere di conferirla? Certo, se la morte è descritta come la mia morte, posso attenderla: è una possibilità caratterizzata e distinta. Ma la morte che mi colpirà è la mia? Prima di tutto è perfettamente gratuito dire che «morire è la sola cosa che  nessuno possa fare in vece mia». O piuttosto c’è nel ragionamento un’evidente malafede: se si considera effettivamente la morte come una possibilità ultima e soggettiva, avvenimento che non interessa che il per-sé, è evi- dente che nessuno può morire per me. Ma allora ne segue che nessuna delle mie possibilità, presa da questo punto di vista – che è quello del cogito -, sia presa in una esistenza autentica o inautentica, non può essere progettata da alcun altro all’infuori di me. Nessuno può amare per me, se si intende con ciò fare dei giuramenti che sono i miei giura- menti, provare le emozioni (siano pure banali), che sono le mie emo- zioni. E il «mie» non si riferisce qui affatto ad una personalità, conqui- stata contro la banalità quotidiana (cosa che permetterebbe ad

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Heidegger di controbattere che bisogna appunto che sia «libero per morire» affinché un amore che provo sia il mio amore e non l’amore impersonale), ma molto semplicemente a quella ipseità che Heidegger riconosce espressamente ad ogni «Dasein» – come esistenza autentica  o non autentica – allorquando dichiara che «Dasein ist  je  meines». Così da questo punto di vista, l’amore più banale è, come la morte, insostituibile ed unico: nessuno può amare al mio posto. Se, invece, si considerano i miei atti nel mondo, dal punto di vista delle loro funzio- ni, della loro efficienza e del loro risultato, è certo che l’altro può sem- pre fare quello che io faccio: se si tratta di fare felice una donna, di sal- vaguardare la sua vita o la sua libertà, di darle i mezzi per essere felice, o semplicemente di realizzare con lei un focolare, di darle «dei figli»,  se amare è questo, allora un altro potrà amare al posto  mio,  potrà anche amare per me: è questo il senso di quei sacrifici, raccontati mille volte nei romanzi sentimentali dove l’eroe innamorato e desideroso della felicità della donna che ama si eclissa davanti al rivale, perché questi «saprà amarla meglio di lui». Qui il rivale è nominalmente inca- ricato di amare per, poiché amare si definisce semplicemente come«rendere felici con l’amore che si porta». E sarà così di tutti i miei comportamenti. La mia morte rientrerà anch’essa in questa categoria: se morire significa morire per edificare, per testimoniare, per la patria ecc. chiunque può morire al posto mio, come nella canzone in cui si sorteggia colui che deve essere mangiato. Insomma non vi è alcuna virtù personalizzante che sia particolare alla mia morte. All’opposto, non diventa la mia morte che se mi pongo già nella prospettiva della soggettività: è appunto la mia soggettività, definita dal cogito prerifles- sivo, che fa della mia morte un insostituibile soggettivo e non la morte che darebbe una ipseità insostituibile al mio per-sé. In questo caso la morte non può caratterizzarsi perché è morte come mia morte e, di conseguenza, la sua struttura essenziale di morte non basta a  fare  di  lei questo avvenimento personalizzato e qualificato che si può aspettare.

Ma la morte non può essere attesa, se non è specificamente desi- gnata come la mia condanna a morte (l’esecuzione che avrà luogo fra otto giorni, la conclusione della mia malattia, che so brutale e vicina ecc.), perché non è altro che la rivelazione dell’assurdità di ogni attesa, fosse anche della sua attesa. Dapprima, bisognerà effettivamente distin- guere con cura due significati del verbo «attendere» che abbiamo con- tinuato a confondere: aspettarsi la morte non significa attendere la morte. Noi possiamo solo attendere un avvenimento determinato, che dei processi altrettanto determinati stanno per realizzare. Posso atten- dere l’arrivo del treno da Chartres, perché so che ha lasciato la stazione

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di Chartres e ogni giro di ruota lo avvicina alla stazione di Parigi. Certamente può avere ritardo, può anche succedergli un incidente: ciò nondimeno il processo stesso per cui si realizzerà l’entrata in stazione è«in corso» e i fenomeni che possono ritardare o sopprimere questa entrata in stazione, significano che il processo non è che un sistema relativamente  chiuso, isolato e che in realtà  è immerso in  un universo a «struttura fibrosa», come dice Meyerson. Inoltre posso dire che aspet- toPietro e che «mi aspetto che il suo treno abbia del ritardo». Ma più precisamente la possibilità della mia morte significa solo che biologicamente non sono che un sistema relativamente chiuso e isolato; essa mette in rilievo solo il fatto che il mio corpo appartiene alla totalità degli esistenti. È del tipo del ritardo probabile dei treni, non del tipo dell’arrivo di Pietro. Fa parte degli inconvenienti imprevisti, inattesi, di cui bisogna sempre tener conto, conservando  loro  il  carattere specifico di inatteso, ma che non si possono attendere, perché si perdono da  soli nell’indeterminato. Ammettendo, infatti, che i fattori   si condizionino rigorosamente, ciò che non è sperimentato e richiede dunque una opzione metafisica, il loro numero è infinito e le loro implicazioni infinitamente infinite; il loro insieme non costituisce un sistema, almeno dal punto di vista considerato, e l’effetto previsto – la mia morte – non può essere previsto per nessuna data né per conseguenza atteso. Forse, mentre scrivo pacificamente in questa camera, lo stato dell’universo è tale che la mia morte si è considerevolmente avvicinata; ma forse, invece, si sta allontanando considerevolmente. Se, per esempio, sto aspettando un ordine di mobilitazione, posso pensare che la mia morte sia  prossima, cioè che  le possibilità di una morte prossima sono considerevolmente aumentate; ma può anche darsi che in questo stesso momento una conferenza internazionale si sia riunita in segreto e abbia trovato il mezzo di prolungare la pace. Così non posso dire che il minuto che passa mi avvicina alla morte. È vero che mi avvicina, se considero la cosa all’ingrosso, nel senso che la mia vita è limitata. Ma all’interno di questi limiti, abbastanza elastici (posso morire centenario o a trentasette anni, domani), non posso sapere se mi avvicino o mi allontano da quel termine. Perché c’è una differenza considerevole di qualità tra la morte al limite della vecchiaia o la morte improvvisa che ci annienta nella virilità o nella giovinezza. Attendere la prima, è accettare che la vita sia una impresa limitata, un modo tra altri di scegliere la finitezza e i nostri fini in base a questa finitezza. Attendere la seconda, sarebbe attendere che la mia vita sia una impresa mancata. Se non esistessero che morti per vecchiaia (o per condanna esplicita), potrei attendere la mia morte. Ma la qualità specifica della morte è di poter sempre sor-

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 prendere prima di un termine coloro che l’attendono per  una  certa data. E se la morte di vecchiaia può confondersi con la finitezza della nostra scelta e di conseguenza essere vissuta come l’accordo di risolu- zione della nostra vita (ci si dà un compito e  del  tempo  per compierlo), la morte improvvisa, invece , è tale che non possiamo in alcun modo aspettarcela, perché è indeterminata e non  si  può attenderla a nessuna data, per definizione: comporta sempre, infatti, la possibilità che noi moriamo di sorpresa prima della data attesa e, di conseguenza, che la nostra attesa sia come attesa, una frode, oppure, che noi sopravviviamo a quella data, e, poiché non eravamo altro che questa attesa, che sopravviviamo a noi stessi. Poiché, d’altra parte, la morte improvvisa è qualitativamente differente dall’altra  solo  in quanto noi viviamo l’una o l’altra, poiché, biologicamente, cioè dal punto di vista dell’universo, esse non differiscono affatto per quanto riguarda le loro cause o i fattori che le determinano, l’indeterminatezza dell’una si ripercuote sull’altra; ciò significa che solo per cecità o malafede si può attendere una morte di vecchiaia.  Infatti,  abbiamo tutte le possibilità di morire prima di aver adempiuto  il  nostro  compito o, invece, di sopravvivergli. C’è quindi un numero di probabilità molto limitato perché la nostra morte si presenti, come quella di Sofocle, per esempio, come un accordo di risoluzione. Ma se  è solamente la sorte che decide del carattere della nostra morte e, quindi, della nostra vita, anche la morte che più assomiglia alla fine di una melodia non può essere attesa come tale; il caso, in quanto ne decide, le toglie ogni carattere di fine armoniosa. La fine di una melodia, infatti, per conferire il suo significato alla melodia, deve emanare dalla melodia stessa. Una morte come quella di Sofocle, assomiglierà quindi ad un accordo di risoluzione, ma non lo sarà, proprio come, se lasciassimo cadere dei cubi con alfabeto, l’accostamento di lettere che ne risulta potrà assomigliare a una parola, ma non lo sarà. Così, la continua apparizione del caso nei miei progetti non può essere colta solo come mia possibilità, ma, al contrario, come l’annullamento di tutte le mie possibilità, annullamento che non fa più parte delle mie possibilità. Così, la morte non è la mia possibilità di  non realizzare più una presenza del mondo, ma è un annullamento sempre possibile dei’ miei possibili, che è al di fuori delle mie possibilità. Ciò si può esprimere in un modo un po’ diverso, a partire dalla considerazione dei significati. La realtà umana è significante, come sappiamo. Ciò significa che si fa dire ciò che è da ciò  che non è, o meglio, che è da venire a se stessa. Se dunque è continuamente impegnata nel proprio futuro, questo ci costringe a  concludere  che essa attende conferma dal futuro. In quanto futuro, infatti, l’avvenire è predelineazione di un presente che sarà; ci si

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rimette nelle mani di questo presente, che, a titolo di presente, deve poter confermare o negare quel significato predelineato che io sono. E in che modo questo presente stesso sarà una libera ripresa del passato alla luce di un nuovo futuro, non possiamo determinarlo, ma solamente pro-gettarlo ed attenderlo. Il significato del mio comportamento attuale è l’ammonizione che voglio dare ad una  persona che mi ha gravemente offeso. Ma come posso io sapere se questa ammonizione non si trasformerà in un balbettio irritato  e  timido, e se il significato del mio comportamento presente non si trasformerà secondo il passato? La libertà limita la libertà, il passato trae il suo significato dal presente. Così, come abbiamo dimostrato, si spiega il paradosso per cui la nostra condotta attuale ci è insieme completamente trasparente (cogito preriflessivo), e, insieme, completamente nascosta da una libera determinazione che dobbiamo attendere: l’adolescente è insieme perfettamente cosciente del senso mistico dei suoi comportamenti ed insieme deve rimettersi al suo  futuro per decidere se sta «attraversando una crisi di pubertà» o impegnandosi sul serio nella via della devozione. Così,  la  nostra libertà ulteriore, in quanto non è la nostra possibilità attuale, ma il fondamento di possibilità che noi non siamo ancora, costituisce come una opacità in piena trasparenza, qualcosa come ciò che Barrès chiamava «il mistero in piena luce». Da ciò la necessità per noi di attenderci. La nostra vita non è che una lunga attesa: attesa della realizzazione dei nostri fini, dapprima (essere impegnato in una impresa significa attenderne la conclusione), attesa di noi stessi soprattutto (anche se questa impresa è realizzata, anche se ho saputo farmi amare, ottenere la tale onorificenza, il tale favore, resta da determinarsi il posto, il senso ed il valore di  questa  impresa  stessa nella mia vita). Ciò non proviene da un difetto contingente della «natura» umana, da una nervosità che ci impedirebbe di limitarci al presente e che potrebbe essere corretta dall’esercizio, ma dalla natura stessa del per-sé che «è» nella misura in cui si temporalizza. Bisogna pure considerare la nostra vita come fatta non solo di attese, ma di attese di attese che attendono esse stesse delle attese. Ecco la struttura della ipseità: essere sé vuol dire venire a sé. Queste attese comportano tutte evidentemente un riferimento a un termine ultimo che sarebbe atteso senza più attendere nulla. Un riposo che sarebbe essere e non  più attesa d’essere. Tutta la serie è  sospesa a  questo termine ultimo  che non è mai dato, per principio, e che è il valore del nostro essere, cioè, evidentemente, una pienezza del tipo «in-sé, per-sé». Con questo termine ultimo, la  ripresa del nostro passato sarebbe fatta  una volta  per tutte; sapremo per sempre se quella prova di giovinezza è stata fruttuosa o nefasta, se quella tale crisi

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di pubertà era capriccio o reale preformazione dei miei impegni ulteriori; la curva della nostra vita sarà fissata per sempre. In una paro- la, il conto sarà saldato. I cristiani hanno tentato di fare della morte questo fine ultimo. Il R. P. Boisselot, in una conversazione privata che ebbe con me, mi voleva spiegare che il «Giudizio finale» era precisa- mente questo rendiconto, che fa sì che non si possa più riprendersi e che si è infine ciò che si è stati irrimediabilmente.

Ma c’ è un errore analogo a quello che avevamo segnalato in prece- denza a proposito di Leibniz, ancorché si ponga all’altro lato dell’esi- stenza. Per Leibniz siamo liberi, perché tutti i nostri atti derivano dalla nostra essenza. Basta tuttavia che la nostra essenza non sia stata scelta da noi perché tutta questa libertà nei particolari ricopra una totale ser- vitù: Dio ha scelto l’essenza di Adamo. Inversamente, se è il rendiconto che dà il suo sorriso e il suo valore alla nostra vita, poco importa che tutti gli atti di cui è fatta la trama della nostra vita siano stati liberi: il senso stesso ci sfugge se non siamo noi stessi a scegliere il momento in cui si faranno i conti. È quanto ha avvertito un autore libertino di un aneddoto del quale Diderot si è fatto eco. Due fratelli compaiono davanti al tribunale divino il giorno del giudizio. Il primo dice a Dio:

«Perché mi hai fatto morire così giovane?». Dio risponde: «Per salvar- ti; se tu fossi vissuto più a lungo avresti commesso un delitto, come tuo fratello». Allora il fratello chiede a sua volta: «Perché mi hai fatto morire così vecchio?». Se la morte non è libera determinazione del nostro essere, non può conchiudere la nostra  vita: un minuto in più o in meno e tutto forse cambia: se questo minuto è aggiunto o tolto  al mio conto, anche ammettendo che lo impieghi liberamente, il senso della mia vita mi sfugge. Ora la morte cristiana viene da Dio: egli sceglie la nostra ora; e, in senso affatto generale, so chiaramente che, anche se sono io che, temporalizzandomi, faccio che vi siano, in generale, dei minuti e delle ore, il minuto della mia morte  non  è fissato da me: le sequenze dell’universo decideranno.

Se è così non possiamo neppur più dire che la morte conferisce un senso alla vita dal di fuori: un senso può venire solo dalla soggettività stessa. Poiché la morte non appare sul fondamento della nostra libertà, non può che togliere alla vita ogni significato. Se sono attesa di attese d’attesa e se, d’un tratto , l’oggetto della mia ultima attesa e colui che attendo sono soppressi, l’attesa ne riceve retrospettivamente il caratte-  re di assurdità . Questo giovane ha vissuto trent’anni nell’attesa di diventare un giorno un grande scrittore; ma questa stessa attesa non bastava a se stessa: sarebbe stata ostinazione vanitosa ed insensata o comprensione profonda del suo valore secondo i libri che egli avrebbe

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scritto. Il suo primo libro è apparso ma, da solo, cosa significa? È   un libro di inizio. Ammettiamo che sia buono; non prende il suo significa- to se non dall’avvenire. Se sarà unico, sarà contemporaneamente inaugurazione e testamento. Se non doveva scrivere che un libro, egli è limitato e scelto  dalla sua  opera; non sarà mai «un grande scrittore». Se il romanzo prende il suo posto in una serie mediocre, è un «caso». Se sarà seguito da altri libri  migliori, potrà classificare il suo autore  al  primo posto.  Ma ecco  che la morte bussa alla porta dello scrittore nel momento stesso in  cui egli si mette alla prova per vedere «se avrà la  stoffa»  per  scrivere un’altra opera, nel momento in cui attende se stesso. Ciò basta perché tutto cada nell’indeterminato: non posso .dire che lo scrittore morto sia l’autore di un solo libro (nel senso in cui non avrebbe dovuto scrivere che un libro solo), ma nemmeno che ne ha scritti parecchi (poiché infatti ne  è  apparso uno solo). Non posso  dire nulla: supponiamo Balzac morto prima dei Chouans, sarebbe rimasto l’autore di alcuni esecrabili romanzi di avventure. Ma d’un tratto, l’attesa stessa che questo giovane morto fu, questa attesa di essere un grand’uomo, perde ogni sorta di  significato:  essa  non  è né testarda e vanitosa cecità, né vero senso del suo valore, perché nulla, mai, ne deciderà. Non servirebbe a niente tentare di decidere considerando i sacrifici che ha fatto per la sua arte, la vita oscura e rude che ha accettato di condurre: tanti mediocri hanno avuto la  forza di fare simili sacrifici. Invece il valore finale di questi comportamenti resta definitivamente in sospeso; o se si preferisce, l’insieme – comportamenti particolari,  attese,  valori-  cade  d’un tratto nell’assurdo. Così la morte non è mai quello che  dà il suo  senso alla vita; è invece ciò che le toglie ogni significato. Se dobbiamo morire, la nostra vita non ha senso perché  i  suoi  problemi non ottengono alcuna soluzione e perché il significato stesso dei problemi resta indeterminato. Sarebbe inutile ricorrere al suicidio per sfuggire a questa necessità. Il suicidio non può essere considerato come una fine per la vita di cui sarei il fondamento. Essendo atto della mia vita, richiede anch’esso un  significato  che solo l’avvenire gli può dare; ma siccome è l’ultimo atto  della mia  vita, esso si priva di questo avvenire: così resta completamente indeterminato.  Infatti,  se  scampo  alla  morte,  oppure  se  il   colpo «fallisce», non giudicherò forse più tardi il mio suicidio  come un  atto di vigliaccheria? L’avvenimento non potrà forse indicarmi che altre soluzioni sarebbero state possibili? Ma  dal  momento  che queste soluzioni non possono essere che i miei progetti,  non possono apparire che se vivo. Il suicidio è un’assurdità che fa sprofondare  la  mia vita nell’assurdo.

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Queste osservazioni, si riscontrerà, non sono tratte dalla considerazione della morte, ma da quella della vita; è perché il per-sé è l’essere per cui l’essere si problematizza nel suo essere, è perché il per-sé è l’es-sere che reclama sempre un dopo, che non c’è posto alcuno per  la morte nell’essere che è per-sé. Cosa potrebbe dunque significare una attesa della morte, se non l’attesa di un avvenimento indeterminato che ridurrebbe ogni attesa all’assurdo, compreso quello della morte? L’attesa della morte si distruggerebbe da sola, poiché sarebbe negazio- ne di ogni attesa. Il mio pro-getto verso una morte è comprensibile (suicidio, martirio, eroismo) ma non il progetto verso la mia morte come possibilità indeterminata di non realizzare più una presenza nel mondo, perché questo progetto sarebbe distruzione di tutti i progetti. Così la morte non può essere la mia possibilità: non può essere neppu- re una delle mie possibilità.

D’altra parte la morte, in quanto può rivelarmisi, non è solo l’ annullamento sempre possibile dei miei possibili – annullamento al di fuori delle mie possibilità – non è solo il progetto che distrugge tutti i progetti e che si distrugge da sola, l’impossibile distruzione delle mie attese: è il trionfo dal punto di vista d’altri sul punto di  vista che io  sono su me-stesso. Questo è senza dubbio ciò che intende dire Malraux, allorché scrive della morte nell’Espoir, che «essa trasforma la vita in destino». La morte, infatti, è solo dal suo lato negativo annulla- mento delle mie possibilità: come effettivamente io non sono le mie possibilità se non per la nullificazione dell’essere-in-sé che devo essere, la morte come annullamento di un nullificare è posizione del mio esse- re come in-sé, nel senso in cui, per Hegel, la negazione di una negazio- ne è affermazione . Finché il per-sé è «in vita», supera il suo passato verso il suo avvenire ed il passato è ciò che il per-sé ha da essere.  Allorché il per-sé «cessa di vivere», questo passato non si abolisce automaticamente: la scomparsa dell’essere nullificante non lo tocca nel suo essere che è del tipo dell’in-sé; si inabissa nell’in-sé. La mia vita intera è, ciò significa non che essa sia una totalità armoniosa, ma che ha cessato di essere il proprio «rinvio» e che non può più mutarsi median- te la semplice coscienza che ha di se stessa. Ma invece, il senso di un fenomeno qualsiasi di questa vita è fissato ormai, non da se stesso, ma da quella totalità aperta che è la vita arrestata. Questo significato a tito- lo primitivo e fondamentale, è assenza di senso, come abbiamo visto. Ma come titolo secondario e derivato, mille riflessi, mille irridazioni di sensi relativi possono giocare su questa assurdità fondamentale di una vita «morta». Per esempio, qualunque ne sia stata la  vanità  ultima, resta di fatto che la vita di Sofocle è stata felice, che la vita di Balzac è

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stata prodigiosamente laboriosa ecc. Naturalmente queste qualifiche generali possono essere prese più da vicino; possiamo rischiare una descrizione, un’analisi, e nello stesso tempo una narrazione di questa vita. Otterremo caratteri più distinti; per esempio, potremo dire di una certa morte, come Mauriac di una delle sue eroine, che ha vissuto in «disperata prudenza»: potremmo cogliere il senso della «anima» di Pascal (cioè della sua «vita» interiore), come «sontuoso e amaro» come lo descriveva Nietzsche. Possiamo arrivare a qualificare un certo episo- dio come una «vigliaccheria» o una «indelicatezza» senza, tuttavia, perdere di vista che l’arresto contingente di questo «essere-in-per- petuo-rinvio» che è il per-sé vivente, è il solo che permette – e sul fondamento di una assurdità radicale-, di conferire il senso relativo all’e- pisodio considerato e che questo senso è un significato essenzialmente provvisorio, il cui provvisorio è incidentalmente passato al definitivo. Ma queste diverse spiegazioni del senso della vita di Pietro avevano per effetto, allorché era Pietro stesso che le operava sulla propria vita, di cambiarne il significato e l’orientamento, perché ogni descrizione della propria vita, quando è tentata dal per-sé è progetto di sé al di là di que- sta vita, e siccome il progetto alterante è insieme unito alla vita che esso alterano è la vita stessa di Pietro che trasformava il suo significato, tem- poralizzandosi continuamente. Ora, essendo morta la sua vita, solo la memoria dell’Altro può impedire che si avvizzisca nella sua pienezza  di in-sé tagliando tutti i suoi ormeggi col presente. La caratteristica di una vita morta è di essere una vita di cui l’altro  diventa  il guardiano. Ciò non significa semplicemente che l’altro trattenga la vita dello «scomparso», effettuandone una ricostruzione esplicita e cognitiva. Invece, una simile ricostruzione non è che uno degli atteggiamenti possibili dell’altro in rapporto alla vita morta e, come conseguenza, il carattere «vita ricostituita» (nell’ambito familiare mediante i ricordi dei vicini, o nell’ambito storico) è un destino particolare che viene a contrassegnare certe vite ad esclusione di altre. Necessariamente ne risulta che la qualità opposta «vita caduta nell’oblio» rappresenta pure un destino specifico e descrivibile, che ricevono certe vite a partire dall’Altro. Essere dimenticato vuol dire fare l’oggetto di  un atteggiamento dell’altro, di una decisione implicita d’altri. Essere dimenticato è, in effetti, essere appreso decisamente e per sempre come elemento fuso in una massa (i «grandi feudatari del XIII secolo», «i borghesi whigs del XVII secolo», «i funzionari sovietici», ecc.) e non significa affatto annullarsi, ma perdere la propria esistenza personale perché essa venga costituita con altri in esistenza collettiva. Ciò ci  mostra quello che desideravamo provare e cioè che l’altro non può essere dapprima senza contatto coi

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morti per decidere in seguito (o perché le circostanze decidano) di avere questa o quella relazione con certi morti particolari (quelli che ha conosciuto da vivi, i «grandi morti» ecc.). In realtà, la relazione  coi morti- con tutti i morti- è una struttura essenziale della relazione fon- damentale che abbiamo chiamata «essere-per-altri». Nel suo sorgere all’essere, il per-sé deve prendere posizione in relazione ai morti, il suo progetto iniziale li organizza in larghe masse anonime o in individualità distinte; e di queste masse collettive, come di queste individualità, egli determina la distanza o la prossimità assoluta, dispiega fra loro e lui distanze temporali temporalizzandosi, proprio come le distanze spaziali che dispiega a partire da ciò che lo circonda; facendosi annunciare dal suo fine ciò che è, decide dell’importanza delle collettività o delle individualità scomparse; il gruppo che sarà strettamente anonimo e amorfo per Pietro, sarà specificato e strutturato per me; quell’altro puramente uniforme per me,  lascerà  apparire  per  Giovanni  alcune delle sue componenti individuali. Bisanzio, Roma, Atene, la seconda crociata , la Convenzione, altrettante immense necropoli che posso vedere da vicino o da lontano, in una visione generale o dettagliata, a seconda della posizione che assumo, che «sono», – al punto che non è impossibile – per poco che lo si consideri – definire una «persona» mediante i suoi morti, cioè  mediante  i settori   di individualizzazione o di collettivizzazione che essa ha determinato nella  necropoli,  mediante le strade ed i sentieri che ha tracciato, le indicazioni che ha deciso di  farsi dare, mediante le «radici» che vi ha messo. Certamente i morti ci scelgono, ma bisogna dapprima averli scelti. Troviamo qui ancora il rapporto originale che unisce la fatticità alla libertà: scegliamo il nostro atteggiamento verso i morti, ma non può essere che non ne scegliamo uno. L’indifferenza verso i morti è un atteggiamento perfettamente possibile (si potrebbe trovarne degli esempi presso gli «heimatlos», presso certi rivoluzionari o individualisti). Ma  questa  indifferenza  –  che consiste nel fare «rimorire» i morti – è un comportamento fra altri, nei loro riguardi. Così, mediante la sua stessa fatticità, il per-sé viene gettato in una completa «responsabilità»  di fronte  ai morti; è obbligato  a decidere liberamente della loro sorte. In particolare, quando si tratta di morti che ci circondano, non può avvenire che non decidiamo – esplicitamente o implicitamente – della sorte delle loro imprese; ciò è palese allorché si tratta del figlio che riprende l’impresa del padre o del discepolo che riprende la scuola o le dottrine del maestro. Ma, quantunque il legame sia meno chiaramente visibile in un grande numero di circostanze, ciò è pur vero in tutti i casi in cui il morto ed il vivo considerati appartengano alla medesima collettività storica e concreta. Sono

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io, sono gli uomini della mia generazione che decidono del senso degli sforzi e delle imprese della generazione anteriore, sia che riprendano e continuino i loro tentativi sociali e politici, sia che realizzino decisa- mente una rottura e rigettino i morti nell’inefficienza. Come abbiamo visto, fu l’America del 1917 a decidere del valore e del senso delle imprese di La Fayette. Così da questo punto di vista, appare chiara- mente la differenza tra la vita e la morte; la vita decide del proprio significato; perché è sempre in dilazione, possiede un potere di auto- critica e di auto-metamorfosi che fa sì che si definisca come un «non-ancora» o che sia, se lo si vuole, cambiamento di quello che è. La vita morta non cessa pertanto di cambiare e tuttavia è fatta. Ciò significa che, per essa, il gioco è fatto e che subirà oramai i suoi cambiamenti senza esserne affatto responsabile. Non si tratta per essa soltanto di una totalizzazione arbitraria e definitiva; si  tratta,  inoltre,  di una trasformazione radicale: nulla può più  arrivarle  dall’interno, essa è completamente chiusa, non vi si può fare  entrare nulla; ma il  suo senso continua ad essere modificato dal di  fuori. Fino alla  morte  di questo apostolo di pace, il senso delle sue imprese (follia o senso profondo del reale, riuscita o sconfitta) era fra le sue mani; «finché ci sarò, non ci saranno guerre». Ma, quando questo senso oltrepassa i confini di una semplice individualità, quando la persona si fa annunciare ciò che è da una situazione oggettiva da realizzare (la pace in Europa), la morte rappresenta una totale spogliazione: è l’Altro che spoglia l’Apostolo della pace del senso stesso dei suoi sforzi e dunque del suo essere, incaricandosi, suo malgrado e col suo stesso nascere, di trasformare in sconfitta o in riuscita, in follia o in intuizione di genio, l’impresa stessa da cui la persona si faceva annunciare e che essa era  nel suo essere. Così l’esistenza stessa della morte ci aliena completamente, nella nostra vita, a profitto d’altri. Essere morto è essere in preda ai vivi. Ciò significa dunque che colui che tenta di cogliere il senso della sua futura morte deve scoprirsi come preda futura degli altri. C’è dunque un caso di alienazione che non abbiamo considerato nella sezione di questa opera che consacrammo al  per- altri; le alienazioni che abbiamo studiato rientravano infatti in quelle che è possibile nullificare trasformando l’altro in  trascendenza- trascesa, così come potevamo nullificare il nostro esterno mediante la posizione assoluta e soggettiva della nostra libertà: finché vivo posso sfuggire a ciò che sono per l’altro facendomi rivelare, mediante i miei fini liberamente posti, che non sono nulla e che mi faccio essere ciò  che sono; finché vivo posso smentire ciò che l’Altro scopre di me pro- gettandomi verso altri fini, ed in ogni caso, scoprendo che la mia dimensione di essere-per-me è incommensurabile

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con la mia dimensione di essere-per-l’altro. Così sfuggo senza tregua al mio esterno, e sono pure senza sosta riafferrato da esso, senza che, «in questo combattimento dubbioso», la vittoria definitiva appartenga all’uno o all’altro di questi modi di essere. Ma il fatto della  morte,  senza allearsi precisamente con l’uno o con l’altro degli avversari di questa lotta, dà la vittoria finale al punto di vista  dell’altro,  trasportando il combattimento e la posta su altro terreno, cioè sopprimendo improvvisamente uno dei combattenti. In questo senso, morire significa essere condannato, qualunque sia la vittoria effimera che si è riportata sull’altro, ed anche se ci si è serviti dell’altro per «scolpire la propria statua», a non più esistere che mediante l’altro e a trarre da esso il proprio significato ed il senso stesso della vittoria. Se condividiamo effettivamente i punti di vista realisti che abbiamo esposto nella nostra terza parte, si dovrà riconoscere che la mia esistenza da morto non è la semplice sopravvivenza spettrale «nella coscienza dell’altro», di semplici rappresentazioni (immagini, ricordi ecc.) che mi riguardano. Il mio essere-per-altri è un essere reale e se si trova nelle mani d’altri come un mantello che gli lascio dopo la mia scomparsa, è a titolo di dimensione reale del mio essere – dimensione diventata la mia unica dimensione – e non di spettro inconsistente. Richelieu, Luigi xv, mio nonno non sono affatto la somma dei miei ricordi, né la somma dei ricordi o delle conoscenze di tutti coloro che  ne hanno sentito parlare; sono degli esseri oggettivi e opachi, ma che sono ridotti semplicemente alla sola dimensione di esteriorità. A tale titolo, continueranno la loro storia nel mondo umano, ma non saranno altro che trascendenze-trascese nel mondo; così non solo la morte disarma le mie attese togliendo definitivamente l’attesa e lasciando nell’indeterminato la realizzazione dei fini che mi annunciano ciò che sono – ma, ancora, conferisce un senso  di  esteriorità a tutto ciò che vivo in soggettività; riafferra tutto questo soggettivo che,  finché viveva, si difendeva contro l’esteriorizzazione e lo priva di ogni senso soggettivo per abbandonarlo, invece, ai significati  oggettivi  che piacerà all’altro di dargli. Conviene tuttavia far notare che «questo destino» così conferito, alla mia vita, è anch’esso in sospeso, in dilazione, perché la risposta a questa domanda: «Quale sarà, in defini- tiva, il destino storico di Robespierre?» dipende dalla risposta alla domanda preliminare: «Ha forse la storia un senso?» cioè «deve con- cludersi o solo aver termine?». Questa domanda non è risolta – forse è insolubile, perché tutte le risposte che si danno (compresa la risposta dell’idealismo: «la storia dell’Egitto è la storia dell’egittologia») sono esse stesse storiche.

Così, ammettendo che la mia morte possa rivelarsi nella mia vita,

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vediamo che non può essere un puro arresto della mia soggettività, che in definitiva essendo un avvenimento interiore di questa soggettività, non si riferirebbe che ad essa. Se è vero che il realismo dogmatico ha avuto torto di vedere nella morte lo stato di morte, cioè un trascenden- te alla vita, cionondimeno la morte, quale la scopro come mia, impegna necessariamente qualcosa d’altro da me. In quanto, infatti, è annulla- mento sempre possibile dei miei possibili, è al di fuori delle mie possi- bilità e non posso quindi attenderla, cioè gettarmi verso di lei come verso una delle mie possibilità. Non può dunque appartenere alla struttura ontologica del per-sé. Finché è il trionfo dell’altro su di me, rinvia ad un fatto fondamentale, certo, ma del tutto contingente, come abbiamo visto, che è l’esistenza dell’altro. Non conosceremmo questa morte se l’altro non esistesse: essa non potrebbe né manifestarsi a noi, né soprattutto costituirsi come la metamorfosi del nostro essere in destino: sarebbe in realtà la scomparsa simultanea del per-sé e del mondo, del soggettivo e dell’oggettivo, del significante e di tutti i signi- ficati. Se la morte in un certo senso può rivelarsi a noi come metamorfosi di quei significati particolari che sono i miei significati, ciò avviene in conseguenza del fatto dell’esistenza di un altro significante che garantisce il cambiamento dei significati e dei segni. È a causa del- l’altro che la mia morte è la mia caduta fuori dal mondo, come soggettività, invece di essere l’annullamento della coscienza e del mondo. C’è allora un innegabile e fondamentale carattere di fatto, cioè una contingenza radicale nella morte come nell’esistenza altrui. Questa contin- genza la sottrae in anticipo a tutte le congetture ontologiche. Meditare sulla mia vita considerandola a partire dalla morte, sarebbe come meditare sulla mia soggettività prendendo su di essa il punto di vista dell’altro: abbiamo tuttavia visto che ciò non è possibile. Così, dobbiamo concludere contro Heidegger che, lungi dall’essere la mia propria possibilità, la morte è un fatto contingente che, in quanto tale, mi sfugge per principio e dipende originariamente dalla mia fatticità. Non posso né scoprirla, né attenderla, né prendere un atteggiamento verso di essa perché è ciò che si rivela come inscopribile, ciò che disarma tutte le attese, ciò che si infiltra in tutti gli atteggiamenti, e particolarmente in quelli che si prenderebbero di fronte ad essa, per trasformarli in comportamenti esteriorizzati e cristallizzati, il cui senso è per sempre affidato ad altri invece che a noi stessi. La morte è un  puro fatto come la nascita: viene a noi dall’esterno e ci trasforma in esteriorità. In fondo, essa non si distingue per niente dalla nascita, ed è appunto l’identità della nascita e della morte che noi chiamiamo fatticità.

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Vorrebbe questo dire che la morte traccia i limiti  della  nostra libertà? Rinunciando all ‘essere-per-morire di Heidegger, abbiamo forse rinunciato per sempre alla possibilità di dare liberamente  al  nostro essere un significato di cui siamo responsabili?

Invece, ci sembra che la morte, scoprendosi a noi come è, ci libera completamente dalla sua pretesa coartazione. Ecco quello che apparirà più chiaramente riflettendoci.

Ma prima di tutto sarà conveniente separare radicalmente le due idee, in generale unite, di morte e di finitezza. Si crede spesso che sia la morte a costituire e a rivelare la nostra finitezza. Da questa contamina- zione risulta che la morte prende aspetto di necessità ontologica e che  la finitezza invece trae dalla morte il suo carattere di contingenza . Un Heidegger in particolare, sembra abbia costruito tutta la sua teoria del «Sein-zum-Tode» sull’identificazione rigorosa della morte con la finitezza: allo stesso modo, Malraux, allorché ci dice che la morte ci rivela l’unicità della vita, sembra appunto considerare che è perché moriamo che non possiamo ritornare sui nostri stessi passi, e quindi siamo finiti. Ma considerando le cose un po’ da vicino ci si accorge del loro errore; la morte è un fatto contingente che dipende dalla fatticità; la finitezza è una struttura ontologica del per-sé che determina la libertà e non esiste che mediante il libero progetto del fine che mi annuncia il mio essere. In altre parole, la realtà umana sarebbe finita, anche se fosse immorta- le, perché si rende finita scegliendosi umana. Essere finito vuol dire scegliersi, cioè farsi annunciare ciò che si è, proiettandosi verso un pos- sibile ad esclusione degli altri. L’atto stesso della libertà è dunque assunzione e  creazione della finitezza. Se  mi faccio, mi faccio finito  e, per questo, la mia vita risulta unica. Allora, fossi anche immortale, mi è proibito di riprendermi: è  l’irreversibilità della temporalità che  me lo impedisce, e questa irreversibilità non è altro che il carattere proprio di una libertà che si temporalizza. Certamente se io sono immortale e ho dovuto scartare il possibile B per  realizzare  il  possibile A, si ripresenterà l’occasione per me di realizzare questo possibile rifiutato. Ma dal fatto stesso che questa occasione si ripresenterà dopo l’occasione rifiutata, essa non sarà la stessa ed allora mi sarò fatto finito per l’eternità, scartando irrimediabilmente la prima occasione. Da questo punto di vista l’immortale come il mortale nasce molteplice e si fa uno solo. Per essere temporalmente indefinita, cioè senza confini, la sua «vita» non sarà meno finita nel suo essere stesso, poiché esso si fa unico. La morte non ha nulla a che vedere; sopravviene «nel frattempo» e la realtà umana, rivelando la sua finitezza, non scopre con questo la sua mortalità.

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Così la morte non è affatto una struttura ontologica del mio essere, almeno in quanto esso è per sé; è l’altro che è mortale nel suo essere. Non c’è posto per la morte nell’essere-per-sé: esso non può né attender- la, né realizzarla, né proiettarsi verso di lei; la morte non è affatto il fon- damento della sua finitezza e in modo generico non può né essere fondata dal di dentro come progetto della libertà originale, né essere rice- vuta dal di fuori come una qualità per il per-sé. Che cos’è dunque? Nient’altro che un certo aspetto della fatticità e dell’essere-per-altri, cioè nient’altro che il dato. È assurdo che siamo nati, è assurdo che moriamo; d’altra parte questa assurdità si presenta come alienazione permanente del mio essere-possibilità che non è più la mia possibilità, ma quella dell’altro. È dunque un limite esterno e di fatto della mia soggettività!  Ma, non si riconosce forse qui la descrizione che abbiamo tentato di dare nel paragrafo precedente? Questo limite di fatto che dobbiamo assicurare, in un certo senso, poiché nulla ci penetra dall’esterno e perché bisogna bene che in un certo senso sperimentiamo la morte se dobbiamo poterla almeno nominare, ma che d’altra parte non è mai incontrata dal per-sé, poiché essa non è nulla di lui, all’infuori della permanenza indefinita del suo essere-per-I’ altro, che cosa è allora, precisamente, se non uno degli irrealizzabili? Che cos’è un aspetto sintetico dei nostri rovesci? Mortale rappresenta l’essere presente che io sono per-altri; morte rappresenta il senso futuro del mio per-sé attuale per l’altro. Si tratta dunque di un limite permanente dei miei progetti; e come tale, questo limite è da assumersi.  È dunque una esteriorità che resta esteriorità fino al tentativo del per-sé di realizzarla: ciò che abbiamo definito in precedenza come l’irrealizzabile da realizzare. In fondo non c’è differenza fra la scelta con la quale la libertà assume la sua morte come limite inafferrabile e inconcepibile  della sua soggettività· e quella con cui essa sceglie di essere libertà limitata dal fatto della libertà dell’altro. Così la morte non è la mia possibilità, nel senso precedentemente definito; è situazione-limite, come rovescio scelto e fuggente dalla mia scelta. Non è il mio possibile, nel senso in cui sarebbe la mia fine che mi rivelerebbe il mio essere; ma dal fatto che è necessità ineluttabile di esistere altrove come un esterno ed un in-sé, essa è interiorizzata come «ultima», cioè come senso tematico e fuori portata dei possibili gerarchizzati. Così, abita nell’intimo stesso dei miei progetti come loro ineluttabile rovescio; ma precisamente siccome questo «rovescio» deve essere assunto non come mia possibilità, ma come la possibilità che non ci siano più per me possibilità, essa non mi tocca affatto. La libertà che è mia libertà resta totale e infinita: non che la morte non la limiti, ma perché la libertà non incontra mai questo limite, la morte non è affatto un

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ostacolo ai miei progetti; è solo un destino altrove di questi progetti . Non sono «libero per morire»,  ma un libero  mortale.  La morte sfugge ai miei progetti perché è irrealizzabile, io sfuggo me stesso alla morte  nel mio progetto stesso. Essendo ciò che è sempre al di là della mia sog- gettività, non c’è alcun posto per lei nella mia soggettività. E questa sog- gettività non si afferma contro di lei, ma indipendentemente da lei, quantunque questa affermazione sia immediatamente alienata. Noi non possiamo dunque né  pensare  la morte né attenderla,  né armarci contro di lei; ma i nostri progetti in quanto tali – non  in  conseguenza  del  nostro accecamento, come dice il cristiano, ma per principio – sono indipendenti da lei. Quantunque ci siano innumerevoli atteggiamenti possibili di fronte a questo «irrealizzabile» «da realizzare per sopram- mercato» non c’è posto per classificarli autentici o non-autentici, pro- prio perché noi moriamo sempre per soprammercato.

Queste diverse descrizioni, sul mio posto, il mio passato, ciò che mi circonda, la mia morte ed il mio prossimo non hanno la pretesa di esse-  re esaurienti, né circostanziate. Il loro scopo è semplicemente quello di permetterci una idea più chiara di ciò che è una «situazione». Per loro merito, ci sarà possibile definire più precisamente l’«essere-in-situazio- ne» che caratterizza il per-sé in quanto è responsabile della sua maniera di essere senza essere fondamento del suo essere.

Io sono un esistente in mezzo ad altri Ma non posso «realizzare» questa esistenza in mezzo ad altri, non posso cogliere gli esiste che mi circondano come oggetti né cogliere me stesso come esistente circondato e neppure dare un senso a questa nozione di «in mezzo» che scegliendo me-stesso, non nel mio essere, ma nella mia maniera di essere. La scelta di questo fine è scelta di un non-ancora-esistente. La mia posizione in mezzo al mondo, definita dal rapporto di utensilità o di avversità delle realtà che mi circondano con la mia fatti- cità, cioè la scoperta dei pericoli che corro nel  mondo,  degli ostacoli  che posso incontrarvi, degli aiuti che possono venirmi  offerti,  alla luce di una nullificazione radicale di me stesso e di una negazione  radicale  ed interna dell’in-sé, operati dal punto di vista di un fine liberamente posto, ecco quello che chiamiamo situazione. La situazione non esiste che in correlazione col superamento del dato verso un fine. Essa è il modo per cui il dato, che io sono, ed il dato, che non sono, si scoprono al per-sé che io sono secondo il modo di non esserlo. Chi dice situazione dice «posizione appresa dal per-sé che è in situazione». È impossibile considerare una situazione dall’e- sterno: essa si coagula informa in-sé. Di conseguenza, la situazione  non può essere detta né oggettiva né soggettiva, ancorché le strutture par-

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ziali di questa situazione (la tazza di cui mi servo, il tavolo sul quale mi appoggio, ecc.) possano e debbano essere rigorosamente oggettive.

La situazione non può essere soggettiva, perché non è né la somma né l’unità delle impressioni che ci danno le cose: essa è le cose stesse e me- stesso tra le cose: perché il mio nascere nel mondo come pura nulli- ficazione di essere non ha altro effetto che quello di fare si che ci siano delle cose e non vi aggiunge nulla. Sotto questo aspetto, la situazione tradisce la Fatticità mia, cioè il fatto che le cose sono là semplicemente come sono, senza necessità né possibilità di essere diversamente, e che  io sono là in mezzo a loro.

Ma essa non può essere nemmeno oggettiva nel senso che sarebbe un puro dato che il soggetto constaterebbe senza affatto inserirsi nel sistema così costituito. Infatti, la situazione, mediante il significato stes- so del dato (significato senza il quale non ci sarebbe dato) riflette al per-sé la sua libertà. Se la situazione non è né soggettiva né oggettiva, dipende dal fatto che essa non costituisce una conoscenza né una com- prensione affettiva dello stato del mondo da parte di un soggetto; ma è una relazione d’essere fra un per-sé e l’in-sé, che esso nullifica. La situa- zione è il soggetto intero (non è nient’altr o che la sua situazione) ed è pure la «cosa» intera (non e’è mai niente più delle cose) possiamo dire che è il soggetto che chiarisce le cose col suo stesso superamento, oppure le cose che rimandano al soggetto la sua immagine. È la fatti- cità totale, la contingenza assoluta del mondo, della mia nascita, del mio posto, del mio passato, di ciò che mi circonda, del fatto del mio prossimo – ed è la mia libertà senza limiti come ciò che fa sì che ci sia per me una fatticità. È questa strada polverosa e in salita, questa sete ardente che ho, questo rifiuto della gente di darmi da bere, perché non ho denaro o non sono del loro paese o della loro razza: è il mio rilassa- mento in mezzo a queste popolazioni ostili, con questa stanchezza del mio corpo, che mi impedirà forse di raggiungere lo scopo che mi ero prefisso. Ma è appunto anche questo scopo, non in quanto lo formulo precisamente e chiaramente ma in quanto è là, ovunque attorno a me come ciò che unifica e spiega tutti questi fatti, ciò che li organizza in una totalità descrivibile invece di farne un caotico incubo.

Se il per-sé non è altro che la sua situazione, ne segue che l’essere in situazione definisce la realtà umana, rendendo conto contempora- neamente del suo esser-ci e del suo essere-al-di-là. La realtà umana è l’essere che è sempre al-di-là del suo esser-ci. E la situazione è la totalità organizzata dell’esserci interpretata e vissuta mediante l’essere-al-di-là  e in esso. Non c’è dunque una situazione privilegiata: con ciò intendia- mo dire che non vi è situazione dove il dato soffocherebbe sotto il suo

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peso la libertà che lo costituisce tale né, reciprocamente, situazione, dove il per-sé sarebbe più libero che in altre. Questo non deve inten- dersi nel senso della «libertà interiore» bergsoniana che Politzer canzonava ne La fin d’une parade philosophique e che terminava semplice- mente nel riconoscere allo schiavo l’indipendenza della vita intima e  del cuore pur essendo in catene. Quando dichiariamo che lo schiavo è libero, nelle sue catene, quanto il suo padrone, non vogliamo parlare di una libertà che sarebbe indeterminata. Lo schiavo in catene è libero di romperle; ciò significa che il senso stesso di queste catene gli apparirà alla luce del fine che avrà scelto: restare schiavo o arrischiare il peggio per liberarsi dalla servitù. Senza dubbio, lo schiavo non potrà ottenere le ricchezze ed il livello di vita del padrone; ma questi non costituisco- no gli scopi dei suoi progetti, può soltanto sognare di possedere quei tesori; la sua fatticità è tale che il mondo gli appare con un altro aspet- to e che deve porre e risolvere altri problemi; in particolare, è necessa- rio che si scelga sul terreno della schiavitù e, con ciò stesso, dia un senso a questa oscura costrizione. Se egli sceglie per esempio la rivolta, la schiavitù, lungi dall’essere in partenza un ostacolo a questa rivolta, non prende il suo senso ed il suo coefficiente di avversità che da essa. Precisamente perché la vita dello schiavo che si rivolta e muore nel corso della rivolta è una vita libera, proprio perché la situazione chiari- ta da un libero progetto è piena e concreta, perché il problema urgente e capitale di questa vita è: «Raggiungerò il mio scopo?», per tutto  ciò, la situazione dello schiavo non si può confrontare con quella del padro- ne. Ciascuna di esse non prende il suo significato che dal per-sé in situazione, e partendo dalla libera scelta dei suoi fini. Un confronto  non può essere fatto che da un terzo e, di conseguenza, non sarebbe possibile che tra due forze oggettive nel mondo; sarebbe stabilita d’al- tra parte alla luce del progetto liberamente scelto da questo terzo: non c’è alcun punto di vista assoluto dal quale si possa dipendere per con- frontare delle situazioni diverse; ogni persona non realizza che una situazione, la sua.

La situazione, essendo chiarita da fini che non sono per se stessi progettati che partendo dall’esser-ci che essi illuminano, si presenta come eminentemente Certo, essa contiene e sostiene delle strutture astratte e universali, ma deve comprendersi come quell’aspet- to singolare che il mondo rivolge verso di noi, come nostra possibilità unica e personale. Basti ricordare questo apologo di Kafka: un mercan- te viene a perorare la sua causa al castello; un guardiano terribile gli sbarra la strada. Egli non osa passare, attende e muore in attesa . Prima di morire domanda al guardiano: «Perché ero solo ad attendere?». Il

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guardiano gli risponde: «Questa porta non era  fatta  che per te». Ecco  il caso del per-sé, se si vuol bene aggiungere che ognuno si fa la propria porta. La concretezza della situazione si traduce in particolare col fatto che il per-sé non mira mai a fini fondamentali astratti ed universali. Senza dubbio nel prossimo capitolo vedremo che il senso profondo della scelta è universale e che, con ciò, il per-sé fa sì che esista una realtà-umana come specie. Inoltre bisogna svincolare il  senso che è implicito; ed è a questo che ci servirà la psicanalisi esistenziale. E una volta svincolato, il senso terminale e iniziale del per-sé apparirà come un «Unselbststandig» che per manifestarsi ha bisogno  di una  concretezza  particolare1.  Ma il fine del  per-sé  quale  è vissuto e perseguito nel progetto col quale supera e fonda, il reale, si rivela nella sua concretezza al per-sé come un cambiamento particolare della situazione che vive (rompere le proprie catene, essere re dei Franchi, liberare la Polonia, lottare per il proletariato). E ancora non sarà a tutta  prima per il proletariato in  generale che si avrà intenzione di lottare, ma il proletariato sarà preso di mira attraverso quel tale raggruppamento operaio concreto al quale la persona appartiene. In effetti succede che il fine non illumina il dato se non perché è scelto come superamento di questo dato. Il per-sé non sorge con un fine già dato. Ma «facendo» la situazione egli «si fa» e inversamente.

La situazione così come non è né soggettiva né oggettiva, non può essere considerata come libero effetto di una libertà o come l’insie- me delle coartazioni che subisco: proviene dal chiarimento della costri- zione da parte della libertà che le dà il suo senso di costrizione. Fra gli esistenti bruti non ci potrebbero essere legami, è la libertà che fonda i legami raggruppando gli esistenti in complessi utensili ed è appunto essa che proietta la ragione dei legami, cioè il suo fine. Ma proprio per- ché io mi proietto verso un fine attraverso un mondo di legami, incontro ora delle sequenze, delle serie legate dei complessi e devo determinarmi ad agire secondo delle leggi. Queste leggi ed il sistema di cui faccio uso decidono della sconfitta o della riuscita dei miei tentativi. Ma le relazioni legali vengono al mondo mediante la libertà. Così la libertà si incatena nel mondo come libero progetto verso dei fini.

Il per-sé è temporalizzazione; ciò significa che non è; «si fa». È la situazione che deve rendere conto di quella permanenza sostanziale che si è portati naturalmente a riconoscere alle persone («non è cambiato», «è sempre lo stesso») e che la persona sperimenta empiricamente, in molti casi, come sua. Il libero perseverare in uno stesso progetto, in

  1. Vedere il capitolo seguente.

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realtà, non implica alcuna permanenza, mentre invece è un perpetuo rinnovamento del mio impegno, come abbiamo visto. Ma le realtà  implicate e chiarite da un progetto che si sviluppa e si conferma, presentano invece la permanenza dell’in-sé e, nella misura in cui esse ci rimandano la nostra immagine, ci sostengono con la loro perennità; è pure facile che prendiamo la loro permanenza per la nostra. In partico- lare, la permanenza del posto e di ciò che ci circonda, dei giudizi su di noi da parte del prossimo, del nostro passato, raffigura una immagine degradata della nostra perseveranza. Mentre mi temporalizzo, sono sempre Francese, funzionario o proletario per altri. Questo irrealizzabi- le ha il carattere di un limite invariabile della mia situazione. Parimenti quello che chiamiamo temperamento o carattere di una persona e che non è altro che il suo libero progetto in quanto è-per altri, appare   anche per il per-sé come un irrealizzabile invariato. Alain ha benissimo visto che il carattere è giuramento. Chi dice «non sono un tipo facile» è un libero impegno alla collera che contratta e, allo stesso tempo, una libera interpretazione di certi dettagli ambigui del suo passato. In que- sto senso non c’è carattere, non c’è che un progetto di se-stesso.  Tuttavia non bisogna misconoscere l’aspetto «dato» del carattere. È vero che per l’altro, che mi coglie come altro-oggetto, io sono collerico, ipocrita o franco, vile o coraggioso. Questo aspetto mi è rimandato dallo sguardo altrui: con la prova di questo sguardo il carattere che era libero progetto vissuto e cosciente (di) sé diventa un irrealizzabile «ne varietur» da assumere. Dipende allora non solamente dall’altro, ma dalla posizione che ho preso di fronte all’altro e dalla mia perseveranza nel mantenere questa posizione: fintanto che mi  lascerò  affascinare dallo sguardo di altri, il mio carattere figurerà ai miei occhi come irrealizzabile «ne varietur>>, la permanenza sostanziale del mio essere, come lo fanno intendere le frasi banali pronunciate quotidianamente, quali:

«Ho quarantacinque anni e non posso cambiare proprio oggi». Il carattere è anche spesso ciò che il per-sé tenta di recuperare per diven- tare l’in-sé-per-sé che progetta di essere. Bisogna osservare tuttavia che questa permanenza del passato, di ciò che ci circonda, e del carattere non sono qualità date: si rivelano sulle cose solo in correlazione con la continuità del mio progetto. Sarebbe inutile sperare, per esempio, che dopo la guerra si ritroverà, o dopo un lungo esilio, il tale paesaggio montagnoso inalterato e fondare, sull’inerzia e la permanenza apparente di queste pietre, la speranza di una nuova rinascita del passato. Questo paesaggio non scopre la sua permanenza che attraverso un progetto perseverante: queste montagne hanno un senso all’interno della mia situazione, esse raffigurano in un modo o in un altro la mia appar-

 

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tenenza ad una nazione in pace, padrona di se-stessa e che occupa un certo posto nella gerarchia internazionale. Pur ritrovandole di nuovo dopo una disfatta e durante l’occupazione di una parte del territorio, non mi potrebbero offrire lo stesso volto: è che io stesso ho altri pro- getti, e mi sono impegnato in modo diverso nel mondo.

Infine, abbiamo visto che turbamenti interni della situazione determinati da cambiamenti autonomi  di  ciò  che ci circonda  sono sempre  da prevedersi. Questi cambiamenti non possono mai provocare una modifica del mio progetto, ma possono produrre tuttavia, sulla  base  della mia libertà, una semplificazione o una complicazione della situa- zione. Per ciò stesso, il mio progetto iniziale mi si rivelerà con maggio- re o minore semplicità. Poiché una persona non è mai né semplice né complessa: è la sua situazione che può essere l’una  e l’altra.  Io  non  sono altro che il progetto di me stesso al di là di una situazione determinata e questo progetto mi prevede a partire dalla situazione concreta come d’altra parte chiarisce la situazione partendo dalla mia scelta. Se dunque la situazione nel suo insieme si è semplificata, se delle frane, delle erosioni le hanno dato un profilo crudo, a linee decise, con con- trasti violenti, sarò anch’io semplice, perché la mia scelta – la scelta che io sono – essendo apprensione di quella situazione non potrebbe essere che semplice. Nuove complicazioni, rinascendo, avranno per effetto di presentarmi una situazione complicata, al di là della quale mi troverò complicato. Questo è quanto ognuno  ha  potuto  constatare  se ha notato  a quale semplicità quasi animale ritornavano i prigionieri di guerra, in seguito all’estrema semplificazione della loro situazione: questa semplificazione non poteva modificare il loro progetto stesso nel suo signifi- cato; ma sul fondamento stesso, della mia libertà, comportava una con- densazione e una uniformazione di ciò che mi circondava, che si costi- tuiva per una percezione più netta, più brutale e più condensata dei   fini fondamentali della persona prigioniera. Si tratta insomma di un metabolismo interno, non di una metamorfosi globale che interesserebbe forse anche la forma della situazione. Sono pertanto dei cambia- menti che scopro come tali, «nella mia vita», cioè nei quadri unitari di uno stesso progetto.

  1. Libertà e responsabilità

 Quantunque le considerazioni che seguiranno interessino piuttosto il moralista, si è pensato che non sarebbe inutile, dopo queste descrizioni e queste argomentazioni, ritornare sulla libertà del per-sé e tentare di

 

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comprendere ciò che rappresenta per il destino umano il fatto di questa libertà.

La conseguenza essenziale delle nostre precedenti osservazioni è che l’ uomo, essendo condannato ad essere libero, porta il peso del mondo tutto intero sulle spalle: egli è responsabile del mondo e di se- stesso in quanto modo d’essere. Prendiamo la parola  «responsabi  – lità» nel suo senso banale di «coscienza (di) essere l’autore incontesta- bile di un avvenimento o di un oggetto». In questo senso, la responsa- bilità del per-sé è molto grave , perché è colui per cui succede che e’è un mondo; e poiché è pure colui che si fa essere, qualunque sia la situa- zione in cui si trova, il per-sé deve assumere interamente la situazione col suo coefficiente di avversità, fosse pure insostenibile; deve assumer- la con la coscienza orgogliosa di esserne l’autore, perché gli inconvenienti peggiori o le peggiori minacce che rischiano di raggiungere la mia persona non hanno senso che per il mio progetto; compaiono sullo sfondo del mio progetto di impegno È quindi insensato pensare di rammaricarsi perché nulla di estraneo ha deciso di ciò  che proviamo,  di ciò che viviamo o di ciò che siamo. D’altra parte, questa responsabilità assoluta non è accettazione: è semplice rivendicazione logica delle conseguenze della nostra libertà. Quello che mi accade, accade per opera mia e non potrei affliggermene né rivoltarmi né rassegnarmi. D’altra parte tutto ciò che mi accade è mio: con ciò bisogna intendere che sono sempre all’altezza di quello che mi accade, in quanto uomo, perché ciò che accade agli uomini per opera di altri uomini e di se-stes- so non potrebbe essere che umano. Le più atroci situazioni della guer- ra, le peggiori torture non creano stati di cose inumani: non ci sono situazioni disumane ; è solo per paura, fuga e ricorso a comportamenti magici che deciderò dell’inumano; ma questa decisione è umana e ne sopporterò tutta la responsabilità. Ma la situazione è mia inoltre, per- ché è l’immagine della libera scelta di me stesso e tutto ciò che mi pre- senta è mio in quanto che mi rappresenta e mi simbolizza. Non sono forse io che decido del coefficiente di avversità delle cose, e persino delle loro imprevedibilità, decidendo di me-stesso? Così, non ci sono accidenti in una vita; un avvenimento sociale che scoppia improvvisa- mente e mi trascina non viene dall’esterno; se sono mobilitato in guer- ra, questa guerra è la mia , essa è a mia immagine e la merito. La merito dapprima perché potevo sempre sottrarmici col suicidio o la diserzio- ne: queste possibilità estreme devono sempre esserci presenti allorché si tratta di considerare una situazione. Non essendomi sottratto, l’ho scelta: questo può essere per debolezza, per vigliaccheria di fronte all’opinione pubblica, perché preferisco certi valori a quello del rifiuto

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di fare la guerra (la stima dei miei vicini, l’onore della mia famiglia ecc.) . In ogni modo si tratta di una scelta. Questa scelta verrà in  seguito  rinnovata in forma continua fino alla fine della guerra; bisogna

dunque sottoscrivere all’affermazione di J. Romains:1   «In guerra  non ci sono vittime innocenti». Se allora ho preferito la guerra alla morte o al disonore, è come se portassi l’intera responsabilità della guerra.  Senza dubbio altri l’hanno dichiarata e forse si dovrebbe considerarmi come un semplice complice. Ma questa nozione di complicità non ha che un senso giuridico: qui non ha valore: perché dipendeva da  me, che questa guerra non esistesse per me e per opera mia, ed ho deciso che esistesse. Non c’è stata alcuna costrizione, poiché la costrizione  non può avere alcuna presa su una libertà: non ho avuto scuse, per-  ché, come abbiamo detto e ripetuto in questo libro, la qualità propria della realtà-umana è di essere senza scuse. Non mi resta dunque altro che rivendicare questa guerra. Inoltre essa è mia perché, per il fatto stesso che nasce in una situazione che faccio esistere, e dal momento che non posso scoprirla in questa situazione che impegnandomi per o contro di lei, non posso più distinguere la scelta che faccio  di  me,  dalla scelta che faccio di lei: vivere questa guerra, significa scegliermi mediante lei e sceglierla mediante la scelta di me stesso. Non può esi- stere il problema di considerarla come «quattro anni di vacanza» o di «rinvio», come una «sospensione di seduta», essendo l’essenziale della mia responsabilità altrove, nella mia vita coniugale, familiare, profes- sionale. Ma in questa guerra che ho scelto mi scelgo di giorno in gior- no e la faccio mia facendomi. Se  deve essere quattro anni vuoti, sono io che ne porto la  responsabilità. Infine, come abbiamo fatto  notare  nel paragrafo precedente, ogni persona è una scelta assoluta di sé a partire da un mondo di conoscenze e di tecniche che questa scelta assume ed illumina allo stesso tempo: ogni persona è un assoluto che gode di una data assoluta e perfettamente impensabile  ad  un’altra  data. È dunque inutile domandarci cosa sarei stato se  questa  guerra non fosse scoppiata, poiché mi sono scelto come uno dei sensi possi- bili dell’epoca che portava insensibilmente alla guerra: non mi distinguo da questa epoca stessa, non potrei essere trasportato ad un’altra epoca senza contraddizione. Così sono questa guerra che limita e fa comprendere il periodo che l’ha preceduta. In questo senso, alla for- mula che abbiamo citato poco fa: «Non ci sono vittime innocenti», bisogna aggiungere quest’altra per definire più nettamente la responsabilità del per-sé: «Si ha la guerra che si merita». Così, totalmente

  1. J. Romains: Les hommes de bonne volonté; «Prélude à Verdun».

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libero,  indistinguibile dal periodo di cui ho scelto di essere il senso, profondamente responsabile della guerra come se  l’avessi dichiarata  io, non potendo vivere nulla senza integrarlo alla mia situazione, impegnarmi completamente in essa e lasciarle la mia impronta, devo essere senza rimorsi né rimpianti come sono senza scuse, perché dal momento del mio nascere all’essere, porto il peso del mondo da solo senza che nulla né alcuno possano alleggerirlo.

Nondimeno il tipo di questa responsabilità è assai particolare. Mi si risponderà effettivamente che «io non ho domandato di nascere», ma è un modo ingenuo di mettere l’accento sulla nostra fatticità. Io sono, in realtà, responsabile di tutto, salvo che della mia responsabilità stessa, perché non sono il fondamento del mio essere. Tutto accade dunque come se fossi obbligato ad essere responsabile. Sono abbandonato nel mondo, non nel senso in cui sarei abbandonato e passivo in un universo ostile, come l’asse che fluttua sulle onde, ma invece, nel senso in cui mi trovo improvvisamente solo e senza aiuto, impegnato in un mondo in cui porto completamente la responsabilità, senza potere, per quanto io faccia, strapparmi, fosse anche solo per un momento, a questa responsabilità, perché il desiderio stesso di fuggire la responsabilità mi fa responsabile; farmi passivo nel mondo, rifiutarmi di agire sulle cose e sugli altri vuol ancora dire scegliermi, ed il suicidio è un modo fra i tanti di essere-nel-mondo. Ciononostante ritrovo una responsabilità assoluta per il fatto che la mia fatticità; cioè in questo caso il fatto della mia nascita, è direttamente inafferrabile e anche inconcepibile, perché questo fatto della mia nascita non mi appare mai allo stato bruto, ma sempre attraverso una ricostruzione proiettiva del mio per-sé: mi ver- gogno di essere nato o me ne meraviglio, o mi rallegro, o, tentando di togliermi la vita, affermo che vivo e assumo questa vita come cattiva. Così in un certo senso scelgo di essere nato. Questa stessa scelta è inte- gralmente affetta di fatticità, perché non posso non scegliermi; ma que- sta fatticità, a sua volta, non apparirà che in quanto la supero verso i miei fini. Così la fatticità è ovunque, ma inafferrabile; non incontro mai altro che la mia responsabilità, per questo non posso domandare “per- ché sono nato?”, maledire il giorno della mia nascita o dichiarare che non ho chiesto di nascere, perché questi diversi atteggiamenti verso la mia nascita, cioè verso il fatto che realizzo una presenza nel mondo non sono altro che modi di assumere in piena responsabilità questa nascita e farla mia: qui ancora non incontro che me e i miei progetti, in modo che finalmente il mio abbandono, cioè la mia fatticità, consiste semplicemente nel fatto che sono condannato ad essere integralmente responsabile di me stesso. Sono l’essere che è come essere il cui essere

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si problematizza nel suo essere. E questo «è» del mio essere è come presente ed inafferrabile.

A queste condizioni, poiché ogni avvenimento del mondo non può rivelarmisi che come occasione (occasione messa a profitto, mancata, trascurata ecc.), o meglio ancora, poiché tutto ciò che ci accade può essere considerato come una possibilità, cioè non può apparirci che  come mezzo di realizzare questo essere che si problematizza nel nostro essere, e poiché gli  altri  come trascendenze-trascese,  non  sono  , anch ‘ essi, che occasioni e possibilità, la responsabilità del per-sé si estende sul mondo intero come mondo popolato. È così precisamente che il per-sé si coglie nell’angoscia, cioè come un essere che non è fondamento né del suo essere, né dell’essere degli altri, né degli in-sé che formano il mondo, ma che è costretto a decidere del senso dell’essere, in lui e ovunque al di fuori di lui. Chi realizza nell’angoscia la sua con- dizione di essere gettato in una responsabilità che si ritorce persino sul proprio abbandono, non ha più né rimorsi, né rimpianti, né  scuse: non  è più che una libertà che si scopre da sola ed il cui essere risiede in questa scoperta stessa. Ma, l’abbiamo notato all’inizio di questa opera, la maggior parte del tempo fuggiamo l’angoscia nella malafede.

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