Luca Lualdi
Potere e decisione nell’epoca della tecnica
Nel 1954 lo scrittore americano Fredric Brown presentava al pubblico un racconto intitolato La risposta (The Answer)[1]. I protagonisti, Dwar Ev e Dwar Reyn, presumibilmente scienziati, si apprestavano a ultimare la loro più recente invenzione: un super-calcolatore composto di tutte le calcolatrici elettroniche sparse negli innumerevoli pianeti dell’universo (novantasei miliardi, secondo le stime), che, secondo i due scienziati, avrebbe dovuto fornire la risposta a una delle più irriducibili domande del mondo, quella relativa all’esistenza di Dio. Una volta azionata, Dwar Reyn chiese alla macchina: “Dio esiste?”. La voce proveniente dal super-calcolatore, senza la minima esitazione e con tono solenne, rispose: “Adesso sì”. Sconvolto e terrorizzato, Dwar Ev si lanciò verso la leva che azionava la macchina, nel tentativo di arrestarla. Un fulmine proveniente da un cielo sgombro di nubi, però, lo colpì, incenerendolo, e fuse la leva inchiodandola al suo posto.
La tematica che emerge dalle righe di questo racconto è, evidentemente, di ampio respiro. Brown, in particolare, con il suo racconto metteva in campo tutti i motivi dell’immaginario apocalittico novecentesco, profondamente influenzato dallo spettro dell’atomica e dalla concreta possibilità di un annientamento totale del genere umano. Per quanto il taglio narrativo adottato da Brown risenta, per l’appunto, di un’atmosfera tipicamente novecentesca – dove le riflessioni filosofiche mettevano perlopiù a tema il concetto di “tecnica” e non propriamente di “tecnologia” –, ci sembra comunque che la tacita critica che si fa strada nelle parole dello scrittore americano possa ancora oggi mostrare una certa rilevanza.
Con La risposta, Brown tesseva la trama di un incubo in cui l’umanità intera poteva essere annientata (o anche solo assoggettata) da un prodotto tecnico. Si trattava certamente dell’ennesima esplorazione di un terrificante futuro, che ancora oggi resta confinato nelle pagine di romanzi distopici o nelle pellicole di film hollywoodiani. E tuttavia, una reale e concreta preoccupazione emergeva, in quegli anni, non solo dalle penne di scrittori come Brown, ma anche e soprattutto dalle menti di autorevoli pensatori, i quali interpretavano come un dovere e una necessità far luce sulla sempre maggiore rilevanza attribuita alla tecnica e ai suoi prodotti. Una preoccupazione che, nell’immaginario di autori “apocalittici”, non può che riemergere con maggior vigore all’interno di una civiltà tecnologica come quella odierna. L’obiettivo che qui ci proponiamo, però, non è quello di indagare scenari fantascientifici o apocalittici degni della migliore letteratura distopica, bensì di fornire un breve spunto di riflessione intorno al delicato e complesso rapporto tra l’uomo e la tecnica.
Il tema che emerge nel racconto è quello della tecnica che da serva è diventata padrona. In proposito, Hans Jonas osserva: «l’esperienza ci ha insegnato che gli sviluppi di volta in volta avviati, con obiettivi a breve termine, dal fare tecnologico presentano la tendenza a rendersi autonomi, ossia ad acquisire una propria dinamica coattiva […]. Ciò a cui un tempo è stato dato avvio ci sottrae di mano la legge dell’agire […]. Qui, più che altrove, si verifica che, mentre siamo liberi di fare il primo passo, al secondo e a tutti gli altri successivi siamo già schiavi»[2].
Anni prima, Günther Anders aveva elaborato riflessioni illuminanti sul tema nel famoso saggio L’uomo è antiquato[3]. Muovendo dal sentimento di inferiorità che l’uomo prova nei confronti della macchina, Anders descriveva l’uomo come un essere imperfetto. Forte di questa carenza, egli pretende diventare un self-made man: una volontà che si spiega «non già perché non sopporta più nulla che egli stesso non abbia fatto […]; ma perché non vuote essere qualche cosa di non-fatto. Non perché provi indignazione per essere fatto da altri (dio, dèi, natura), ma perché non è fatto per nulla e, nella sua qualità di non fatto, è inferiore a tutti i suoi prodotti fabbricati»[4]. L’uomo risulta dunque essere un prodotto difettoso, che invecchia, si ammala e, soprattutto, difficilmente sostituibile, a differenza delle macchine. È quel sentimento di «vergogna prometeica»[5] che affiora dall’insoddisfazione umana per la propria condizione ontologica[6].
Tra gli innumerevoli prodotti che maggiormente mettono a repentaglio il delicato equilibrio tra condizione umana e tecnica vi è la bomba atomica. L’uomo moderno, conscio del suo incommensurabile potere, vede in esso un «qualche cosa di assoluto o infinito»[7]. Assoluto non nel senso di una creatio ex nihilo, ma di una «potestas annihilationis: la reductio ad nihil [è il] potere di cui noi stessi disponiamo. L’onnipotenza che da tempo avevamo agognato, con animo prometeico, l’abbiamo realmente acquistata, seppure in forma diversa da quella sperata. Dato che possediamo la forza di apprestarci vicendevolmente la fine, siamo i signori dell’Apocalisse. L’infinito siamo noi»[8]. Esemplare prodotto della fisica e dell’ingegneria, la bomba atomica sottopone l’intera umanità alla minaccia dell’estinzione. Se la bomba venisse impiegata per il conseguimento di uno scopo, «il minimo dei suoi effetti sarebbe più grande di qualsiasi scopo (politico, militare) […]»[9], al punto che l’effetto del presunto mezzo (la bomba stessa) metterebbe fine allo scopo[10].
Karl Jaspers, dal canto suo, chiama in causa la novità rappresentata dall’atomica attribuendole l’origine di quel processo di smarrimento del senso della responsabilità che, come una malattia, colpisce l’uomo moderno. Uno smarrimento che appare in concomitanza con l’emergere di un totale senso di indifferenza nei confronti del mondo e dell’esistenza umana. Ma ciò che minaccia l’annientamento dell’umano – come l’atomica – deve, diversamente, promuovere una riflessione sul senso dell’umana esistenza. «La possibilità della totale distruzione esterna» – osserva Jaspers – «provoca la nostra intera realtà interiore. Non basta prendere la bomba atomica come problema particolare. Solo se l’uomo come tale risponde alla possibilità datagli in mano egli può esserne all’altezza. Trattando la cosa solo come una difficoltà tra le altre [con indifferenza] non ne diverrà padrone»[11]. La responsabilità rimane, dunque, prima e soprattutto responsabilità del singolo: «il cambiamento può avvenire solo attraverso ogni singolo uomo, nella maniera in cui egli vive. Dipende anzitutto da lui solo. Ogni piccola azione, ogni parola, ogni contegno in cifre di miliardi è essenziale. Quello che ha luogo in grandi dimensioni è solo sintomo di quello che viene fatto nella segretezza dei molti. Chi non può conservare la pace col proprio vicino, chi con perversa condotta rende difficile all’altro la vita […], chi calpesta le leggi, col suo agire, che anche nell’isolamento non è mai privato, impedisce la pace del mondo. Egli fa in piccolo quello che in grande ha come conseguenza l’auto-annientamento dell’umanità»[12].
Ma l’insistenza sul singolo si accompagna sempre alla delineazione di una prospettiva che ha come riferimento l’orizzonte dell’intera umanità, l’idea, cioè, di una solidarietà dell’intero genere umano: «l’unità dell’umanità oggi è l’idea prospettata dalla stessa situazione reale. Essa può nascere solo con la comunanza nei diritti umani. Questa unità è il nuovo, il presupposto perla salvezza dell’umanità in generale»[13].
Analoghe osservazioni sono state avanzate anche da Carl Schmitt all’interno del breve saggio Dialogo sul potere[14]. Nelle battute iniziali del testo, Schmitt dialoga con il suo giovane interlocutore in merito all’origine del potere: un potere – spiega il giurista – che, in un’epoca autodefinitasi “secolarizzata”, non può che essere scaturigine della dimensione umana. Al quesito sull’origine del potere – scrive il giurista – «un tempo si sarebbe risposto: il potere deriva o dalla natura o da Dio»[15]. Oggigiorno, però, l’uomo si sente infinitamente superiore alla natura: «con l’aiuto della tecnica l’uomo, creatura debole per natura, si è innalzato enormemente al di sopra del suo ambiente. È diventato il signore della natura e di tutte le creature terrestri»[16]. Per quanto riguarda Dio, invece, «l’uomo moderno […] ha la sensazione che si ritragga» o che lo abbia «abbandonato»[17]. E se il potere non deriva né dalla natura né da Dio, allora resta un’unica possibilità: «il potere che un uomo esercita sugli altri uomini deriva dagli uomini stessi»[18]. Un potere certamente sconfinato, ma che rischia di produrre esiti terrificanti e atroci, se non coscientemente governato.
All’interno del saggio, Schmitt pone l’attenzione proprio su questa dinamica. Il razionalismo tecnico-economico – argomenta il giurista – mette in campo un impianto che veicola l’idea di un potere capace di trascendere la dimensione specificamente umana: «il braccio umano che regge la bomba atomica, il cervello umano che innerva i muscoli di tale braccio nel momento decisivo non sono tanto le membra del singolo uomo individuale quanto protesi, parti dell’apparato tecnico e sociale che produce la bomba e la impiega»[19]. Suddetti mezzi sono il frutto di una «reazione a catena»[20] dall’uomo meramente provocata, mentre il potere attribuito ai prodotti tecnici si mostra infinitamente più grande rispetto a quello umano. Innescando il processo produttivo di mezzi di distruzione, «gli inventori inconsapevolmente lavorano al tempo stesso alla nascita del nuovo Leviatano, […] un superuomo composto di uomini»[21], cui viene attribuito un potere ben maggiore di quello umano.
Nelle righe conclusive del saggio, l’autore, citando esplicitamente il poeta austriaco Theodor Däubler, afferma, con tono enigmatico, che, in fondo, anche essere uomo resta una decisione[22]. Non si tratta, qui, di una conferma dell’assenza di un fondamento nell’impianto decisionistico schmittiano[23], bensì di un’osservazione che dimostra la sensibilità filosofica (e fenomenologica) del giurista. Guardando infatti alla tematica complessiva del dialogo, pare che il significato ultimo dell’ammonimento si riferisca alla possibilità di decidere circa la propria umanità nell’epoca del razionalismo tecno-economico. Questo il significato della schmittiana fenomenologia del potere: la descrizione delle dinamiche di potere si mostra funzionale a comprenderne l’origine umana. Una convinzione che, tuttavia, viene meno nel secolo della tecnica, il cui andamento rende l’uomo ignaro della natura delle dinamiche di potere. Riconoscere al potere un «plusvalore»[24] – declinato nel senso del riconoscimento di una dimensione propria del potere che si rivela autonoma rispetto agli uomini che lo esercitano o che ne prestano il consenso – significa infatti ammettere in via preliminare la possibilità che possa sfuggire al controllo dell’uomo. Ma finché ciò accade, si resta nell’orizzonte della «dialettica interna del potere umano»[25]. Nell’istante in cui, però, l’uomo si trasforma in un mero apparato del prodotto tecnico rinuncia alla possibilità di esercitare il suo potere, attribuendolo in toto a un prodotto tecnico. Questo il significato ultimo della decisione: un monito a non rinunciare alla propria umanità.
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Luca Lualdi Potere e decisione
NOTE
[1] F. Brown, La risposta, in I. Asimov-M.H. Greenberg (a cura di), Le grandi storie della fantascienza 16, trad. it., Armenia Edizioni, Cornaredo 1987.
[2] H. Jonas, Il principio responsabilità. Un’etica per la civiltà tecnologica, trad. it., Einaudi, Torino 2009, cit. pp. 40-41
[3] G. Anders, L’uomo è antiquato, 2 vol., trad. it., Bollati Boringhieri, Torino 2007.
[4] Id., L’uomo è antiquato. Considerazioni sull’anima nell’epoca della seconda rivoluzione industriale, vol. 1, p. 33.
[5] Ivi, p. 31.
[6] Sul tema dell’insoddisfazione cfr. anche A. Pessina, L’io insoddisfatto. Tra Prometeo e Dio, Vita e Pensiero, Milano 2016.
[7] G. Anders, L’uomo è antiquato, p. 225.
[8] Ibid.
[9] Ivi, p. 234.
[10] Non a caso, esperti politologi parlano, in questo senso, di “deterrenza nucleare”, per indicare la strategia messa in atto dalle potenze dotate di armamento nucleare o atomico al fine di scoraggiare ogni forma di aggressione su vasta scala. Con ciò, la bomba diverrebbe, paradossalmente, l’unico vero strumento capace di garantire la pace globale.
[11] K. Jaspers, La bomba atomica e il destino dell’uomo, trad. it., Il Saggiatore, Milano 1960, cit. p. 18.
[12] Ivi, p. 45.
[13] Ivi, p. 59.
[14] C. Schmitt, Dialogo sul potere, trad. it., Adelphi, Milano 2012.
[15] Ivi, p. 13.
[16] Ivi, p. 17.
[17] Ivi, p. 14.
[18] Ibid.
[19] C. Schmitt, Dialogo sul potere, p. 38.
[20] Ibid.
[21] Ivi, p. 39.
[22] Ivi, p. 44.
[23] Cfr. C. Galli, Genealogia della politica. Carl Schmitt e la crisi del pensiero politico moderno, Il Mulino, Bologna 1996; Id., Lo sguardo di Giano. Saggi su Carl Schmitt, Il Mulino, Bologna 2008.
[24] C. Schmitt, Dialogo sul potere, p. 18.
[25] Ivi, p. 23.
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