Paolo Gomarasca
Il reale è due. La differenza sessuale. Lacan e Lévinas
Nel corso di una conferenza pronunciata al Centre Universitarie Méditerranéen di Nizza nel 1974, Lacan afferma:
«C’è forse per un uomo qualcosa di più imbarazzante del corpo di una donna? A tal punto che persino Platone se n’è accorto. Se n’è accorto nel Simposio dove racconta a livello mitico – è molto comodo il mito ed è anche indispensabile – che essi facevano un sol corpo – ma disgraziatamente questo non si è mai più visto, dopo. Freud, cascando nel tranello, ci racconta che Eros è la tendenza verso l’Uno. Ora, tutta la questione sta proprio qui – il reale è, chiaramente, due»[1].
Come è noto, l’esser-due del reale significa – per Lacan – che il reale è l’impossibile, l’impossibile di ciò che darebbe senso al rapporto cosiddetto sessuale. Questione del non-rapporto, che Lacan, proprio in questi anni del suo insegnamento, contrappone all’idea di physis, qualcosa cioè che «farebbe del sesso un principio di armonia»[2]. L’idea di Lacan è che Platone abbia sfiorato tale questione, prendendo poi velocemente la via comoda del mito del corpo unito, del corpo “tutto tondo”. Il che non significa che il mito sia – di per sé – una strategia di evitamento dell’impossibile. Al contrario, esso è una modalità indispensabile di trattamento del reale. Tuttavia, c’è qualcosa nel mito raccontato nel Simposio sui cui Lacan non è disposto a transigere. Qualcosa che si configura nei termini di un’«enormità platonica»[3] su cui non si possono concedere sconti, nemmeno a Freud.
L’ideologia della sfera.
L’impegno con cui Lacan si confronta con il testo del Simposio risale ai tempi del Seminario VIII, dedicato al tema del transfert (1960-1961)[4]. In realtà, in questo momento Lacan è – più che altro – interessato a mostrare che il dialogo platonico dev’essere inteso come «una sorta di resoconto di sedute psicoanalitiche»[5]. La sua attenzione si concentra perciò sulla figura di Socrate che – esattamente come Freud – sceglie di servire Eros «per servirsene»[6]. Di qui, l’accento sull’articolazione esistente tra i discorsi pronunciati nel Simposio e l’irruzione di Alcibiade, momento cruciale in cui Socrate mette in scena il primo transfert analitico della storia. Eppure, accanto a questo asse portante del suo commento, Lacan non tralascia di attraversare in modo critico il discorso di uno dei convitati: Aristofane. Si tratta del famoso racconto mitico che narra la natura originariamente sferica dell’essere umano: «la figura di ciascun uomo – spiega Aristofane – era di forma sferica nel suo intero, con il dorso e i fianchi a forma di cerchio; aveva quattro mani e tante gambe quante mani, e due volti del tutto uguali su un collo arrotondato. E aveva un’unica testa per ambedue i volti opposti l’uno all’altro, e quattro orecchi e due organi genitali»[7]. Il seguito della storia è risaputo: gli uomini, che erano «terribili per forza e per vigore», attaccarono gli dèi, finché Zeus non decise di punire la loro arroganza tagliandoli in due[8]. Allora – conclude Aristofane -, «dopo che l’originaria natura umana fu divisa in due, ciascuna metà, desiderando fortemente l’altra metà che era sua, cercava di unirsi a lei. Gettandosi attorno le braccia e stringendosi forte l’una all’altra, desiderando fortemente di fondersi insieme, morivano di fame e di inattività, perché ciascuna non voleva fare nulla separata dall’altra»[9].
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Ora, ciò che per Lacan fa questione è proprio l’insistenza di Platone sulla forma sferica e sulla conseguente ideologia fusionale che muoverebbe il desiderio: «la sfera – commenta Lacan – ha tutto ciò che le occorre al suo interno. È rotonda, piena, è contenta, ama se stessa, e soprattutto non ha bisogno né di occhi né di orecchie perché per definizione è l’involucro di tutto ciò che può essere vivente. Ne segue che essa è il vivente per eccellenza […].»[10]. A queste condizioni, non stupisce che il desiderio insegua il fantasma di una mitica restituitio in integrum, possibile solo a patto che l’altro sia il complemento, la parte che manca per (tornare a) fare uno. Lacan non ha perciò alcun dubbio: questa teoria della pienezza armoniosa del vivente si fonda nella struttura immaginaria. Anzi, la fascinazione per la “buona Gestalt” della sfera si regge soltanto laddove c’è «Verwerfung della castrazione»[11]. E, forse, è proprio per via di questo rigetto immaginario del limite che Roland Barthes non riesce a disegnare l’androgino: «io mi ostino ma, o perché pessimo disegnatore o perché mediocre utopista, non vengo a capo di niente. […] l’androgino non è per me raffigurabile; o, almeno, ciò che io riesco a delineare è soltanto un corpo mostruoso, grottesco, improbabile»[12]. Motivo per cui Barthes preferisce rivolgersi direttamente a Lacan: «parrebbe che tutti conoscano il trucco delle due metà che cercano di riunirsi – a cui s’aggiunge ora la storia dell’uovo, della lamella che s’invola e dell’hommelette (il desiderio è di mancare di ciò che si ha – e di dare ciò che non si ha: questione di supplemento, non di complemento)»[13].
La logica dell’a-sfera
Lacan non perde tempo: «la favola di Aristofane – scrive nel Seminario XI – è una sfida ai secoli in quanto li ha attraversati senza che nessuno abbia tentato di fare di meglio. Io ci proverò»[14]. Il riferimento qui evocato è ad un congresso del 1960, riunito all’ospedale di Bonneval, sul tema dell’inconscio freudiano. In quell’occasione, Lacan rivaleggia apertamente con l’Aristofane del Simposio, osando presentare un mito alternativo. A tal scopo, riprende la questione del privilegio platonico per la sfera: «Nel considerare questa sfericità dell’Uomo primordiale e la sua divisione, ciò che si evoca è l’uovo»[15]. Lacan prosegue: «consideriamo questo uovo nel ventre viviparo in cui non ha bisogno di guscio, e ricordiamo che ogni volta che le sue membrane si rompono, è una parte dell’uovo ad esser ferita, giacché dell’uovo fecondato le membrane sono figlie allo stesso titolo del vivente che viene alla luce per la loro perforazione. Ne viene che alla sezione del cordone ciò che il neonato perde non è, come pensano gli analisti, la madre, ma il suo complemento anatomico»[16].
Dall’evento di questa perdita primordiale muove il contro-mito di Lacan: «immaginiamo che ogni volta che le membrane si rompono, dalla stessa uscita s’involi un fantasma, quello di una forma di vita infinitamente più primaria. Rompendo l’uovo – ironizza Lacan – si fa sì l’Homo ma anche l’Hommelette»[17]. È questo il mito attraverso cui Lacan introduce il concetto di “lamella”: «supponiamola – spiega – come un’ampia crêpe che si sposti come l’ameba, ultrapiatta tanto da passare sotto le porte, onnisciente perché mossa dal puro istinto di vita, immortale perché scissipara. Ecco qualcosa che non sarebbe bello sentirsi colare sul viso, senza rumore, durante il sonno per sigillarlo»[18].
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Ora, questa lamella, descritta come un essere mortifero, rappresenta – per Lacan – quella parte che il vivente perde per il fatto di essere sottoposto al ciclo della riproduzione sessuata. Più precisamente, è la raffigurazione mitica della libido: «è la libido – spiega Lacan nel Seminario XI – in quanto puro istinto di vita, vale a dire di vita immortale, di vita incontenibile, di vita che, dal canto suo, non ha bisogno di nessun organo, di vita semplificata e indistruttibile»[19].
Se vale questo, allora l’ideologia della sfera è definitivamente superata in direzione di una logica di supplementarietà affatto diversa: laddove il mito di Aristofane racconta che è l’altro, la sua metà sessuale, che il vivente cerca nell’amore, il mito della lamella spiega che il soggetto non insegue il suo complemento sessuale, bensì quegli oggetti che gli sostituiscano quella perdita di vita che è la sua di essere sessuato. Ne segue che non esiste accesso all’Altro del sesso opposto, se non per le vie di questi sostituti parziali che Lacan chiama oggetti a[20]. Il che spiega come mai non c’è totalizzazione possibile tra “amante” e “amato”: il soggetto, infatti, è un’a-sfera da sempre in-completa, rispetto a cui l’altro non può strutturalmente essere ciò che manca per fare uno. Ecco perché Lacan può parlare dell’amore come amur[21], a-muro che separa anziché integrare; ecco perché il non-rapporto sessuale resta una questione inaggirabile, che vale – per così dire – fin dall’origine del mondo. In effetti, anche il racconto di Genesi – secondo Lacan – non riesce a trovare la via di un’armonia prestabilita tra i sessi: del resto, «non è vero che Dio li ha fatti maschio e femmina, come si dice della coppia di Adamo ed Eva, com’è espressamente contraddetto dal mito ultracondensato che si trova nello stesso testo sulla creazione della compagna»[22].
Androgino biblico?
Lacan coglie una discrepanza interna al testo biblico: in Gen 1,27, oltre all’espressione “Dio li creò”, «c’è anche lo creò, uomo e donna – è proprio il caso di dirlo – Dio sa perché»[23]. D’altra parte, Gen 2,7/18-24 riporta il racconto in cui Dio – letteralmente – “costruisce” la donna in un tempo successivo alla creazione dell’Adamo primigenio. La stranezza è ben sintetizzata in un passaggio del Talmud: «All’inizio Dio li creò maschio e femmina con l’intenzione che fossero due; ma alla fine fu creato solo l’Adamo perché fosse uno»[24]. Dunque, sembrerebbe che l’unica soluzione alla discrepanza testuale sia l’androgino: quando Dio creò l’Adamo a sua immagine, creò un solo corpo, composto delle proprietà di maschio e femmina. Pertanto, in Gen 1,27 sarebbe raccontato l’atto creativo di un solo essere, dotato simultaneamente degli attributi maschili e femminili; invece, in Gen 2,7/18-24, sarebbe descritta la scissione dell’unico Adamo in uomo e donna.
Ora, se fosse semplicemente così, l’Adamo e l’androgino di Aristofane verrebbero logicamente coincidere.
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Eppure, Emmanuel Lévinas, riferendosi ad alcuni commenti talmudici, sostiene l’esistenza di un’importante differenza: «I due volti dell’Adamo primigenio – spiega il filosofo francese – guardano, in piedi, verso il lato in cui resteranno sempre rivolti. Sono da subito volti. La divinità di Platone li fa ruotare dopo la divisione. La loro nuova esistenza, l’esistenza separata, non verrà a punire – come in Platone – le audacie di una natura troppo perfetta. Per gli ebrei l’esistenza separata avrà più valore dell’unione iniziale»[25].
Dunque, in Genesi è operante un principio di separazione che si oppone al sogno di una mitica unione fusionale delle differenze. È in virtù di ciò che il rapporto tra i sessi risulta non-armonico, nel senso lacaniano di un reale che è altro rispetto all’ordine del naturale: «La leggenda – spiega infatti Lévinas – insiste sul fatto che Eva non può apparire che attesa e invocata da tutti i desideri di Adamo: non si offrì ad Adamo come una cosa pronta e prevista per i “bisogni biologici”, in nome di una pretesa necessità naturale»[26]. Niente physis tra i sessi, allora. Certo, la donna in Genesi è detta “completare” l’uomo. Tuttavia, Lévinas precisa che la donna «non lo completa come una parte completa un’altra parte in un tutto, ma – se così si può dire – come due totalità che si completano: è questa dopo tutto, la meraviglia delle relazioni sociali»[27]. Meraviglia di un soggetto “supplementato” dall’Altro, un soggetto che – come direbbe Blanchot – «non cerca di associarsi a un altro per formare una sostanza di integrità»[28]. Questione di un reale che insiste a restare due e non smette di interpellare il soggetto nel suo desiderio dell’Altro. «Dualità drammatica – conclude “lacanianamente” Lévinas – perché possono sorgere un conflitto e una catastrofe; perché l’amica può diventare la più terribile nemica»[29].
Logica difficile. Eppure, ovunque si tenti l’alleggerimento terapeutico del dramma, il legame diventa qualcosa di «patetico e ingannevole»[30]. Così, non pare casuale che Lacan utilizzi lo stesso termine di “Verwerfung della castrazione” per identificare tanto l’androgino di Aristofane, quanto il “discorso del capitalista”[31]. In effetti, ciò che accomuna l’ideologia della sfera e l’impero economico del godimento senza limiti è la medesima strategia anti-drammatica: riparare la mancanza-ad-essere, trasformandola in vuoto da riempire con il complemento adatto. Il che rende l’incontro tra i sessi del tutto superfluo. È per questo allora che l’invenzione del mito della “lamella” non è una semplice divagazione comica: per Lacan, inaspettatamente vicino a Lévinas, significa non cedere di fronte alle impasses della civiltà.
10 ottobre 2010
NOTE
[1] J. Lacan, Il fenomeno lacaniano, in «La psicoanalisi», 24 (1998), pp. 17-18.
[2] J. Lacan, Le séminaire, livre XXII. R.S.I (1974-1975), lez. 8 aprile 1975.
[3] Ibi., lez. 17 dicembre 1974.
[4] Cfr. J. Lacan, Le séminaire, livre VIII. Le transfert (1960-1961), Seuil, Paris 2001.
[5] Ibi., p. 38.
[6] Ibi., p. 18.
[7] Platone, Simposio, a cura di G. Reale, Mondatori, Milano 2001, pp. 56-57 (190 a).
[8] Ibi., p. 57 (190 d).
[9] Ibi., p. 59 (191 b).
[10] Lacan, Le transfert, p. 116.
[11] Ibi., p. 117.
[12] R. Barthes, Frammenti di un discorso amoroso, Einaudi, Torino 1979, p. 201.
[13] Ibi., pp. 200-201.
[14] J. Lacan, Il seminario, libro XI. I quattro concetti fondamentali della psicoanalisi (1964), Einaudi, Torino 2003, p. 191.
[15] J. Lacan, Posizione dell’inconscio, in Id., Scritti, a cura di G. Contri, vol. II, Einaudi, Torino 1974, pp. 832-854; cit. a p. 848. Il riferimento di Lacan è testuale: «Zeus – scrive infatti Platone – tagliò gli uomini in due, come quelli che tagliano le sorbe per farle essiccare, o come quelli che tagliano le uova con un crine» (Platone, Simposio, p. 59 (190 d).
[16] Lacan, Posizione dell’inconscio, pp. 848-849.
[17] Ibi., p. 849.
[18] Ibidem.
[19] Lacan, I quattro concetti fondamentali della psicoanalisi, p. 192; intorno al mito della lamella, è interessante il paragone che Žižek stabilisce tra libido come puro istinto di vita e la figura kafkiana di Odradek (cfr. S. Žižek, Diritti umani per Odradek?, Nottetempo, Roma 2005).
[20] Ibi., p. 192.
[21] J. Lacan, Il seminario, libro XX. Ancora (1972-1973), Einaudi, Torino, 1983, p. 6.
[22] Lacan, Posizione dell’inconscio, p. 853.
[23] J. Lacan, Le séminaire, livre XVI. D’un Autre à l’autre (1968-1969), Seuil, Paris 2006, lez. 13 novembre 1968.
[24] Ketubot 8a, Berakhot 61a, Eruvin 18a.
[25] E. Lévinas, Il giudaismo e il femminile, in Id., Difficile libertà, a cura di S. Facioni, Jaca Book, Milano 2004, pp. 51-60; cit. p. 57.
[26] Ibi., p. 56.
[27] Ibidem.
[28] M. Blanchot, La comunità inconfessabile, SE, Milano 2002, p. 35.
[29] Lévinas, Il giudaismo e il femminile, p. 55.
[30] Cfr. Lacan, I quattro concetti fondamentali della psicoanalisi, p. 201.
[31] «Ciò che distingue il discorso del capitalista è questo: la Verwerfung, il rigetto, il rigetto al di fuori di tutti i campi del simbolico con tutto ciò che questo comporta come conseguenza. Il rigetto di che cosa ? Della castrazione. Ogni ordine, ogni discorso che s’imparenta con il capitalismo lascia da parte ciò che semplicemnete chiameremo le cose dell’amore» (J. Lacan, Le séminaire. XIX-bis. Le savoir du psichanalyste. 1971-1972, inedito; cfr. lezione del 6 gennaio 1972).