Francesco Paolo Adorno
La filosofia morale in Francia
Tradizionalmente la filosofia morale non ha mai goduto di un grande favore in Francia. Condividendo l’etichetta di “filosofia pratica” con la filosofia politica, ha subito l’egemonia di quest’ultima che è sempre stata considerata se non la sua sorella maggiore, sicuramente più importante e più interessante. Nonostante non manchino studi classici di filosofia morale che abbiano contribuito al progresso della disciplina (ove mai qualcosa come un progresso sia possibile in filosofia) o più semplicemente abbiano attirato l’attenzione di studiosi di altre tradizioni filosofiche, inducendoli a discutere o ad adottare le tesi dei loro colleghi francesi,è piuttosto arduo(ancorché non impossibile, basti pensare a un filosofo come Jean Nabert, non molto conosciuto in Italia) trovare studiosi che si possano definire come filosofi morali a pieno titolo, come succede invece frequentemente nella tradizione anglosassone e nella nostra.
Per ragioni storiche, troppo lunghe da discutere in questa sede, si può ricordare un altro fattore che ha contribuito a fare della filosofia morale in Francia una disciplina secondaria. In un intreccio di traduzioni tra il tedesco, l’inglese e il francese, si è arrivati a utilizzare il tedesco Geistwissenschaftper tradurre il termine di “moral sciences” di Mill che è stato poi trasportato pari pari in francese come “sciencesmorales”, a sua volta considerato quasi come un sinonimo di scienze dell’uomo. Un eminente storico della filosofia, Henri Gouhier, ricorda che alla fine del XVIII secolo, tra le classi scientifiche dell’Institut national de France, creato durante la Rivoluzione, era stata inserita una seconda classe divisa in più sezioni, “analisi delle sensazioni e delle idee, morale, scienza sociale e legislazione, economia politica, storia e geografia”, e poi soppressa abbastanza rapidamente da Napoleone, preoccupato di vedere risorgere con altra denominazione quella filosofia che detestava. Insomma, come giustamente osserva Hegel, “le ‘moral’ nella lingua francese è contrapposto al ‘physique’; e significa lo spirituale, l’intellettuale in genere” (Hegel, Enciclopedia, § 503, pp.485).
Ora questa collocazione, abbastanza inconsueta in Italia, che può parzialmente spiegare l’amalgama che spesso si è fatto in Francia tra scienze umane, filosofia politica e filosofia morale, è un buon viatico per indicare le tendenze attuali degli studi morali al di là delle Alpi, tra le quali, un posto di spicco è occupato dal tentativo di naturalizzazione della morale.
Dopo l’esaurimento della generazione esistenzialista dei Sartre, Merleau-Ponty, Ricoeur, Lévinas, che agli occhi di alcuni studiosi contemporanei, praticava il “culto dell’ineffabile”, almeno in campo morale; dopo che si è spenta la generazione dei Foucault, Deleuze, Derrida, Castoriadis, più interessati alla politica che alla morale,si assiste attualmente al tentativo di trapiantare in Francia la problematica della naturalizzazione della morale che ha già egemonizzato il dibattito al di là dell’Atlantico e in genere nei paesi anglofoni, Inghilterra, Australia e Nuova Zelanda. Anche se ci sarebbe molto da dire sul modo in cui i filosofi francesi regolano i conti con i loro predecessori, non si può negare che i problemi etici abbiano acquistato una maggiore leggibilità grazie all’incrocio con altre tradizioni filosofiche e alle richieste frequenti di settori come l’economia, il diritto, la medicina, di sviluppare riflessioni etiche di una qualche utilità pratica. Comunque sia, la tendenza naturalistica in morale nonè totalmente estranea alla tradizione francese, basta pensare a Cabanis e ai suoi Rapportsduphysique et du moral de l’homme del 1802, ma anche alle resistenze più volte espresse da Bergson, con la differenza che questa volta le energie messe in campo sono veramente notevoli. A cominciare dal supporto editoriale, garantito in primo luogo da una casa editrice oramai specializzata in questo tipo di pubblicazioni, le Editions Odile Jacob, fondate dalla figlia del premio Nobel François Jacob, autore de La logiquedu vivant, che pur pubblicando praticamente tutto quello che è scritto nel mondo intero sul rapporto tra (neuro)scienze e etica non ha paradossalmente una collana di filosofia. Un’assenza che sembrerebbe non essere di alcun peso, poiché le pubblicazioni di Odile Jacob, ma anche di altre case editrici e di altre collane incontrano i favori del pubblico. Grazie a questa congiuntura favorevole, le pubblicazioni che si occupanodi “fondements naturels de l’éthique”, secondo il titolo di un volume che riunisce i contributi a un convegno del 1993 organizzato da Jean-Pierre Changeux, sono diventate ormai abbastanza numerose e si articolano su tre punti fermi che danno luogo a geometrie variabili, a seconda del loro incrociarsi.
Il primo punto è inevitabilmente il rapporto tra biologia, neurologia e morale che è sviscerato in un ampio spettro di problemi che vanno dal rapporto tra inconscio e neurobiologia (nei lavori di François Ansermet, Pierre Magistretti e Lionel Naccache tra gli altri) al radicamento neurologico dell’empatia e dell’azione: i lavori di Changeux fanno scuola su questi temi, anche se non sono i soli. Pur non essendo francese, va segnalato il lavoro equilibrato e informato, non scevro di spunti interessanti di Bernard Baertschi, filosofo ginevrino, esperto di bioetica e fra i primi a interessarsi di neuroetica.
Il secondo e il terzo punto, più strettamente filosofici, riguardano due tesi di Hume, filosofo che gode in Francia di grande popolarità attestata dall’imponente numero di pubblicazioni che ne discutono la filosofia morale – e non solo. Le tesi discusse sono la cosiddetta “fallacia naturalistica”, criticata con ampia dovizia di argomentazioni dato il suo carattere di ostacolo teorico a ogni tentativo di naturalizzazione della morale e l’anti-intellettualismo morale di Hume che attualmente riscuote un grande successo in Francia anche grazie alla traduzione dei lavori di neuroscienziati come Damasio, LeDoux, Varela e di filosofi come Martha Nussbaum. Se la discussione della fallacia naturalistica, vera forca caudina di chiunque si propone di dar credito a una fondazione naturalistica della morale, è un tema esoterico, che non ha una grande risonanza presso il pubblico di non specialisti, l’attenzione verso il sentimentalismo morale ha una ben altra eco, data la sua centralità in un’altra teoria morale, anche questa di origine anglosassone, anzi statunitense, che in Francia è di grande attualità, l’etica del “care”. Grazie all’attivismo di Sandra Laugier che, oltre ad essere l’autrice di un’interessante rilettura dell’etica del care alla luce della filosofia dell’ordinario di Cavell, ha creato una vera e propria scuola intorno a questa teoria, l’etica del “care” è al centro di numerosi lavori. L’interesse che ha suscitato in Francia è stato tale da spingere le austere PressesUniversitaires de Francea creare una collana dedicata esclusivamente a questa teoria. Una versione, più francese e meno connotata da preoccupazioni femministe, dell’etica del “care”, la cosiddetta “éthiquedusoin”, è presente soprattutto nei lavori di Frédéric Worms e sta lentamente guadagnando spazio nel panorama filosofico per la sua vocazione multidisciplinare. Per Worms, non è solo l’individuo a dover essere oggetto di una cura specifica, ma è tutta la collettività in quanto specie biologica inserita in un ambiente naturale e in quanto risultato di una storia che deve essere “curata” in maniera specifica.
Come si vede l’impatto della filosofia anglosassone sulla filosofia morale francese è forte e non si esaurisce nella discussione di classici come Hume o nell’attenzione e nella rielaborazione dei lavori più recenti sul “care” che fanno parte a pieno titolo del dibattito teorico francese. In effetti, la grande attenzione verso la filosofia “analitica” (ancorché questa etichetta abbia ancora un senso) è attestata anche dalle traduzioni sempre più frequenti degli autori anglosassoni più influenti che sono per la maggior parte riunite in una collana a loro dedicata, diretta da Monique Canto-Sperber, che, oltre ad essere un’influente e importante filosofa, gioca un ruolo di mediatrice fondamentale tra queste due tradizioni di pensiero a priori piuttosto lontane, essendo tra l’altrocuratrice di un’antologia della filosofia morale britannica.
Vale la pena citare anche il lavoro di Ruwen Ogien che, sempre riprendendo temi cari alla tradizione anglosassone, con uno stile di scrittura chiaro e immediato e con tesi al limite della provocazione, propone delle riflessioni morali che non sono prive di interesse. La sua teoria, che egli stesso definisce minimalista, è in realtà una versione estrema di liberalismo morale nella quale gli individui sono considerati liberi di agire come meglio credono a condizione di non calpestare la libertà altrui. Nozioni come dignità umana, responsabilità, dovere verso di sé sono criticate e svuotate di ogni contenuto a vantaggio dell’unico criterio legittimo di moralità: la libera autodeterminazione di sé.
Non bisogna dimenticare che la bioetica e, in genere, le etiche applicate godono in Francia di un grande seguito: i lavori di Jean-Yves Goffi e Gilbert Hottois (filosofo belga, ma molto attivo sulla scena francese) meritano di essere segnalati.
Se poi si volesse fare un bilancio generale della filosofia morale in Francia, la conclusione da trarre è che esiste una sorte di “entente cordiale” tra filosofia analitica e filosofia francese, con quest’ultima in posizione essenzialmente ricettiva. Molto spesso, come succede frequentemente, questa ibridazione si risolve in una stanca ripresa di temi e di problemi già ampiamente dibattuti; quando,invece, i nostri amici transalpini non dimenticano di essere gli eredi di un’importante tradizione filosofica, questo matrimonio che potrebbe essere considerato come una “mésalliance”, produce risultati interessanti e originali.
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