Alessio Musio
Essere o avere un corpo
Metafore e nuovi scenari economici
La distinzione tra essere e avere un corpo sembra marginale e tutta sbilanciata a favore del secondo termine. Non diciamo forse tutti: ‘il mio corpo’? E non ci sentiamo, a volte, anche estranei al ‘nostro’ stesso corpo, al punto da non riuscire in alcuni casi a comprenderlo, quando invecchia, sfiorisce o si ammala? Eppure, chi fa del male al nostro corpo, o lo tratta senza riguardo, fa del male direttamente a noi e non a una ‘cosa’ che ci appartiene; non offende soltanto il nostro, più o meno imbarazzato, ‘senso di proprietà’, ma la nostra stessa persona.
Il corpo vissuto
Quest’ultima riflessione, come è noto, è di Hegel, il quale pensava in una lingua, il tedesco, in cui il corpo è nominato attraverso due sostantivi: Körper e Leib. Si tratta di una distinzione concettuale davvero ricca e profonda.
Il Körper, infatti, è il corpo per come è studiato in medicina e anatomia, un organismo, certo, ma prima ancora una cosa fra le cose, un oggetto che in termini medici è persino utile pensare come una macchina, se non fosse che una macchina di per sé non muore mai e ogni suo pezzo è in linea di principio sempre sostituibile. Così, spesso i medici (ma non solo) si dimenticano che il corpo è prima di tutto Leib, un sostantivo in cui ritorna il verbo leben, vivere, come a dire che il corpo non è mai una cosa, ma il soggetto stesso, una dimensione fondamentale della sua stessa esistenza e del suo vissuto. Se tocco un qualsiasi oggetto, infatti, sento tra me e la cosa toccata (fosse pure il corpo della persona amata) una distanza che non riconosco, invece, se tocco la mia stessa mano: soggetto e oggetto in questo caso sono la stessa cosa; toccare ed essere-toccati coincidono. Dunque, come spiegava la fenomenologia, non si ha un corpo, ma lo si è, lo si esiste, lo si vive, anche se lo si può vivere come una cosa che non ci riguarda. Insomma, il corpo è sempre Leib anche quando è pensato come Körper.
Il tedesco è la lingua di Kant, di Goethe, della filosofia, della teologia, della letteratura. Ma è stato incredibilmente anche la lingua del nazismo, per quanto i nazisti abbiano attinto a piene mani dal linguaggio d’impresa nord-americano, come nel caso della terribile espressione ‘materiale umano’. In ogni caso, è una lingua straordinaria, per chi non la conosce estremamente dura (e quanto doveva sembrare tale nell’Europa degli anni ’30!), non solo per il suo suono, ma per quella sua asfissiante costruzione della frase, con il verbo sempre in fondo, che però costringe alla precisione del ragionamento ed educa all’attesa: come a dover sospendere il giudizio su ciò che l’altro sta dicendo, almeno sino a che non ha davvero finito di parlare. Eppure, il problema di che cosa sia il ‘nostro’ corpo è già risolto in quella distinzione di vocaboli con cui il tedesco lo pensa e lo nomina.
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Trattare l’altro come Körper, infatti, vuol dire ridurlo a cosa, poterne disporre, in fondo in modo violento quand’anche lo si avvicinasse senza alcuna forma esteriore di violenza; considerarlo come Leib, come corpo vissuto, vuol dire, invece, onorarlo e riconoscerlo come un tu, qualcosa (qualcuno) che non mi potrà mai appartenere, persino nel momento in cui si affidasse liberamente alla mia mano o chiedesse di essere afferrato dalla mia presa.
È in questo senso che un autore come Péguy pensava che gli esseri puramente spirituali provino una sorta di gelosia nei confronti dell’uomo e persino dei suoi peccati della carne, che ironicamente lo scrittore francese riconduceva all’ira e all’orgoglio – proprio per dire che gli uomini non sono spiritelli, ma soggetti corporei che sentono l’ira battere come un tamburo sulle tempie, con il sangue che pulsa e trascina all’impazzata; mentre gli angeli non sanno che cosa possa significare per un uomo l’orgoglio, e neppure il diavolo, che al massimo ne ha conosciuto uno solo intellettuale, privo cioè di consistenza e vissuto corporei.
Tanto dice dell’uomo il ‘suo’ corpo, dove il ‘mio’, ‘tuo’, ‘nostro’ che sempre premettiamo quando lo nominiamo va inteso più come un’indicazione del soggetto (come a dire: ‘è lì’, ‘in quel luogo c’è qualcosa di diverso da tutto ciò che c’è intorno’) che nel senso di una proprietà.
Ma il punto è che noi siamo il nostro corpo anche quando pensiamo di averlo soltanto.
L’immagine della proprietà presa sul serio
Così, se il nazismo aveva ridotto tutti gli uomini a corpi intesi come una proprietà di uno Stato, la cui sovranità si esercitava esattamente nel decidere quali corpi fossero a norma e quali da eliminare, la sua débâcle – come bene hanno documentato i lavori di Roberto Esposito – non ha certo significato la sconfitta dell’idea del corpo come una proprietà, come una cosa.
Pratichiamo quest’idea, in fondo, tutti i giorni, tanto verso noi stessi quanto verso gli altri. Da un lato, perché la nostra società continua a ostentare ossessivamente i corpi come un stock sempre disponibile all’eccitamento dei sensi. Dall’altro, perché partecipiamo di un modello culturale, quello liberale, in cui da sempre il corpo è esplicitamente, e non come una metafora, rivendicato nei termini di una proprietà di cui disporre, come se dalla sovranità sul proprio corpo dipendesse la possibilità di dimostrare di essere padroni esclusivi del proprio sé.
Ma questa vecchia idea del pensiero politico liberale ha assunto ormai un nuovo tratto, diventando la tesi per cui non solo il corpo, ma le più intime funzioni corporee debbano saper essere intese come «beni e servizi commerciali», in riferimento ai nuovi mercati del sangue, degli organi, dei gameti e dei servizi di maternità surrogata. La vecchia idea del corpo come proprietà si trasforma così in quella che tratta il proprio corpo come una risorsa di impresa individuale.
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Come hanno evidenziato in un loro interessante libro M. Cooper e C. Waldby (Biolavoro globale), «con la diffusione delle tecnologie di riproduzione assistita, la vendita di tessuti come oociti e spermatozoi, o di servizi riproduttivi come la maternità surrogata, appare sempre più come un fiorente mercato del lavoro, in cui la manodopera viene prodotta e selezionata secondo linee di classe e di razza».
Un nuovo scenario
Lo sviluppo della fecondazione in vitro ha reso, infatti, possibile separare la figura della donna donatrice di gameti da quella in cui si realizzerà la gestazione e il parto. Questa separazione tecnica ha assunto, però, in poco tempo immediatamente una valenza economica, nella misura in cui solo il patrimonio genetico di chi ha ‘fornito’ gli oociti influisce sulla ‘produzione’ del figlio, dato che la madre surrogata, invece, dal punto di vista genetico quasi non lascia traccia di sé. Così, a essere più richieste (e più pagate) nell’approvvigionamento degli ovociti risultano essere le giovani donne bianche dai tratti somatici nordeuropei – dai dati messi in evidenza da Cooper e Waldby pare che questa tendenza sia un must anche in Israele dove la richiesta della whiteness si accompagna a quella di ‘nasi minuti’. Per le madri surrogate ci si ‘accontenterebbe’, invece, di donne indiane o di colore, assecondando in questo le logiche al ribasso globali della de-localizzazione della manodopera.
Si può inorridire di fronte a questi scenari in cui l’idea del corpo come proprietà è presa davvero sul serio e non come una metafora. Eppure, il corpo resta espressione del soggetto anche quando è trattato come una merce o una sorta di macchinario di produzione; lo si vede dal legame che comunque si instaura tra la madre e il bambino nel caso della maternità surrogata (cioè della maternità che finge di non essere tale); lo si comprende quando si finisce comunque a chiedersi che tipo di persone si stia diventando, mentre ci si immagina come puri spiriti indifferenti a tutto ciò che accade al nostro sfondo materiale; diviene evidente, per così dire, nei segni che restano sul corpo dopo ogni nostra rilevante esperienza materiale, quand’anche non volessimo, o non sapessimo più, ricordare.
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Pubblicato il 30 novembre 2019
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