Alessandra Papa – Hannah Arendt Il tempo radicale della nascita

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 Alessandra Papa

 

 

Hannah Arendt

Il tempo radicale della nascita

 

Hannah Arendt, raffinata interprete di Agostino di Ippona –  a suo dire “il solo filosofo che i Romani abbiano mai avuto”[1] – in Vita della mente, riconosce al filosofo cristiano, il merito di aver definito i capisaldi di un’impresa filosofica straordinaria, capace di saldare finito e infinito, creatività e trascendenza, ma soprattutto capace di riconciliare l’essere umano con la sua finitezza e, dunque, con la sua temporalità.

Scrive, infatti, Arendt:

“[…] Dio creò l’uomo come creatura temporale, homo temporalis; il tempo e l’uomo furono creati insieme, e tale temporalità era confermata dal fatto che ogni uomo deve la sua vita non semplicemente alla moltiplicazione della specie, ma alla nascita, l’ingresso di una creatura nuova che, come qualcosa di completamente nuovo, fa il suo ingresso nel mezzo del continuum temporale del mondo”[2].

A fronte di tale intuizione agostiniana dell’uomo come homo temporalis, proprio al filosofo cristiano, Arendt imputa, perciò, la scoperta del natality: ossia quel di fatto incontrovertibile che per amore del mondo vengono sempre al mondo uomini nuovi.

Al filosofo d’Ippona, la fenomenologa tedesca riconosce, quindi, il merito di aver edificato ‘per primo’ una sorta di originale filosofia della nascita. Le pare, infatti, che quell’ “Initium… ergo ut esset, creatus est homo, ante quem nullus fuit’”[3] possa essere interpretato come il tentativo di Agostino di comprendere l’uomo in quanto natum: ciascun essere umano nascendo, cioè, inaugura un initium temporale in cui tutte le cose create trovano senso.

L’uomo è stato, pertanto, creato per innovare il mondo e rompere il continuum del corso storico.

Una vera e propria categoria filosofica, dunque, quella della natalità, così come viene intuita da Agostino nella sua radicalità temporale, secondo Hannah Arendt: una categoria di pensiero formidabile che dice della nascita come una sorta di condizione pratica, eppure – come la fenomenologa stessa tiene a dire – dopo Agostino mai più utilizzata in filosofia per pensare l’uomo, quantomeno nell’ambito della filosofia della politica; anche perché, di fatto, essa di per sé  è stata poco praticata dallo stesso Ipponate.

Una ‘mera’ intuizione, allora, quella agostiniana della nascita come categoria di pensiero, che avrebbe potuto, in effetti, introdurre una distinzione ontologica decisiva rispetto all’essere dell’uomo e che, invece, è restata nei fatti filosofici un enunciato senza sviluppi formali. O almeno questa è la lettura convinta che Arendt fa – già nella sua tesi di laurea – di quel concetto agostiniano di generatione, a lei, in effetti, molto caro e di cui poi si approprierà ridenominandolo natality; senza, però, in fondo, a sua volta riuscire a farne esplicitamente un elemento strutturale del suo stesso pensiero.

La matrice generativa agostiniana, infatti, negli scritti della filosofa tedesca è, a conti fatti, solo un lampeggiamento. Il riferimento alla categoria della natalità in Arendt stessa è discontinuo, quasi incidentale, o comunque intermittente, e costringe chiunque voglia utilizzarla a una faticosa ricomposizione di quella sorta di antropologia natale, che pur nella sua straordinarietà, resta sottotraccia nelle pieghe teoretiche di un più esplicito progetto di filosofia della politica.

Alla somma, infatti, il natality rimane consegnato a un mero livello intuitivo anche all’interno dello stesso impianto fenomenologico arendtiano.

A ogni modo, al di là degli esiti più o meno fecondi di questo pensiero generativo, resta comunque il fatto che l’Ipponate – secondo la fenomenologa tedesca –  ha avuto l’intuizione di individuare anzitempo tale innovativa categoria filosofica, o piuttosto di farne un vero e proprio principio di fondazione, di natura politica, capace peraltro di risolvere sul piano storico ed esistenziale la più problematica delle domande investigative: quella del Chi dell’uomo.

Valorizzando la nascita, a parere di Arendt, Agostino trova, infatti, il trait d’union tra l’esistenza dell’uomo e le cose del mondo.

La nascita agostiniana – finalmente suggerita come un initium esistenziale  – fa sì che l’oggettività del mondo, con “il suo carattere […] cosale”, e la “condizione umana” si integrino in modo reciproco[4].

Una soluzione quella agostiniana, ossia di pensare l’uomo stesso come initium in quanto natum, che trova, dunque, da subito d’accordo Arendt, sia pure con motivazioni che divaricano in parte da quelle del credente Agostino.

Per la fenomenologa, infatti, è evidente che “le condizioni dell’esistenza umana – vita, natalità e mortalità, mondanità, pluralità e terra – non potranno comunque mai ‘spiegare’ che cosa noi siamo o rispondere alla domanda ‘chi siamo noi?’ per la semplice ragione che non ci condizionano in maniera assoluta”[5].

È, allora, da non credente che Arendt si porta un passo più lontano da Agostino; dal suo punto di vista  fenomenologico non si deve, infatti, incorrere nella tentazione di definire la ‘natura’ umana e, dunque, il che cosa dell’uomo, poiché si rischierebbe di cadere in una sorta di trappola definitoria dell’umano e si cederebbe pure e  inevitabilmente alla tentazione di   immaginare una natura persino “super-umana”[6] , arrivando a spiegare l’uomo esclusivamente a partire da Dio e in Dio, lliquefatto così in una assoluta perfezione.

Questo sforzo di comprensione, in effetti, secondo Arendt, spiegherebbe soltanto l’Uomo, ma non già gli uomini, quantomeno non in una prospettiva prettamente politica.

In una lettura creazionista, del resto, si può sì arrivare a portare a soluzione l’’enigma’ uomo in quanto creatura di Dio, creata – ossia messa al mondo – per dare senso al Creato stesso. E Arendt, questo – da filosofa innamorata del Cristianesimo quale è, ed estimatrice di Agostino – in effetti, seppur atea, lo comprende.

Tuttavia la lettura da farsi, trattandosi degli uomini, per Arendt è un’altra: nascere è anzitutto un umano ‘fatto storico’, poiché è nella storia  che gli uomini mettono al mondo altri uomini. Essi, cioè, generano, iniziano, e per amor mundi rimettono al mondo il mondo stesso.

Cosicché, dal suo punto di vista, proprio il nascere e il far nascere tra gli altri è, in un’ottica politica, la sola chiave di comprensione ontologica possibile.

Insomma, per Arendt, in senso politico, ci deve pur essere una possibilità di comprensione dell’uomo che sia comunque diversa dalla spiegazione teologica e  che prescinda da argomenti divini.

Scrive Arendt in Vita activa: “Il problema della natura umana (quaestio mihi factus sum [‘io stesso sono divenuto domanda’] come dice sant’Agostino) pare insolubile sia nel suo senso psicologico individuale sia nel suo senso filosofico generale. È molto improbabile che noi, che possiamo conoscere, determinare e definire l’essenza naturale di tutte le cose che ci circondano, di tutto ciò che non siamo, possiamo mai essere in grado di fare lo stesso per noi: sarebbe come scavalcare la nostra ombra. Per di più, nulla ci autorizza a ritenere che l’uomo abbia una natura o un’essenza, allora certamente soltanto un dio potrebbe conoscerla e definirla, e il primo requisito sarebbe che egli fosse in grado di parlare di un ‘chi’ come fosse un ‘che cosa’”[7].

La condizione umana non può, pertanto, essere confusa con la natura umana. In questo senso la soluzione agostiniana della nascita come radicale storicità dell’umano nella sua individualità certamente tanto di più la convince. Alla luce della riflessione che l’uomo è natum – o meglio creatum esse – per Arendt si tratta allora solo di sostituire, nell’investigazione attorno all’uomo, il che cosa è con il chi è.

In una tale formidabile antropologia agostiniana di stampo umanistico costruita su un continuo incatenamento di domande formulate correttamente, Arendt ritiene che Agostino, con un semplice stratagemma letterario, abbia quindi portato di colpo a soluzione la magna quaestio sul Chi dell’uomo, o quantomeno che egli, nella sua prospettiva generativa, sia riuscito a sollevare la questione antropologica con forza e determinazione indicando una possibile pista di investigazione filosofica: quella, appunto, dell’initium.

In una lunga nota del primo capitolo di Vita activa sulla condizione umana, scrive, infatti, Arendt,:  “Agostino, generalmente considerato il primo filosofo che abbia sollevato la cosiddetta questione antropologica, comprese perfettamente il problema. Egli distinse le questioni del ‘chi sono io?’ e del ‘che cosa sono io?’ […] Così […], quaestio mihi factus sum, è una questione sollevata alla presenza di Dio, ‘nei cui occhi sono divenuto un problema per me stesso’ […]. In breve, la risposta alla domanda ‘Chi sono io?’ è semplicemente ‘Tu sei un uomo – qualunque cosa ciò possa essere’; e la risposta alla domanda ‘Che cosa sono io?’ può essere data solo da Dio che creò l’uomo. […]“[8].

Insomma la domanda ontologica Che cos’è l’uomo? ha senso solo se è posta dall’uomo a Dio, colui che lo ha creato. Ma altro, invece, è – su un piano politico – tentare di investigare le strutture identitarie dell’uomo e, dunque, il suo Chi agente nella sua inconfondibile individualità che deve rispondere delle sue azioni di fronti ad altri uomini, oltre che davanti a se stesso.

Per Arendt è, pertanto, allora evidente che la categoria del natality sia stata  introdotta da Agostino con l’intento esplicito di trovare una soluzione ‘politica’ al Chi dell’uomo.

Quel che è certo, per Arendt, è che, sin dalla nascita, l’uomo non è una ‘cosa’, ed è lo stesso Agostino che, del resto, a suo dire, ci autorizza a pensarlo come un ‘qualcuno’ ponendo la domanda riflessiva Chi sono io?

L’uomo è altro dalle cose del mondo. Da qui la sua intrinseca libertà, poiché – come sottolinea Arendt usando talvolta a pretesto le tesi agostiniane – è con l’azione, o meglio la facoltà di iniziare qualcosa di nuovo, che egli si sottrae alla stretta della natura.

L’uomo, dunque, è sì homo temporalis, poiché il tempo e l’uomo furono creati insieme, secondo Agostino. Eppure questo essere tempo dell’uomo non lo decide in sé in termini meramente naturali: l’uomo, poiché libero per nascita, non è mai, infatti, identico a se stesso. La sua condizione muta. Cosicché, in questo continuo mutamento di forme di condizione – il fatto stesso, cioè, di appartenere alla terra eppure in qualche modo di eccederla nella sua cosalità naturale – egli è finalmente libero di agire tra gli altri e con gli altri in quanto natale: capace di innovarsi e di innovare il mondo.

La temporalità dell’essere umano non è, infatti, conservata in una mera forma moltiplicata a garanzia di una specie: gli uomini, del resto, non semplicemente si ri-producono, ma nascono.

L’uomo, Agostino docet, viene al mondo tra altri uomini che gli chiedono Chi sei tu? Ed è a causa di questo domandare, che sempre lo sollecita nella pluralità, che egli deve la sua vita, perciò, non già alla semplice ri-produzione biologica, ma al nascere.

È, dunque, la nascita che segna temporalmente l’initium di una creatura nuova (novel creature) che fa “irruzione nel mezzo del continuum temporale del mondo”[9].

Chi è, dunque, l’uomo? La risposta di Arendt è sicura quanto pervicace e non lascia dubbi di sorta al suo lettore. L’uomo è un ‘natale’, o meglio, una novel creature [10], ossia una creatura completamente nuova, che entra nel tempo del mondo,   interrompendone la continuità temporale e, in fondo, le monotonie storiche: il già deciso della Storia.

Un’epifania, o meglio un apparire, quello dell’essere umano che, in tutta la sua creaturialità, porta quindi con sé, alla nascita, un tempo diverso: ossia quello dell’iniziativa individuale e dell’initium, inteso arendtianamente come un agire all’origine, proprio peraltro questo di ogni singolo uomo.

Un agire che è, cioè,  occasione fondante di un relazionale, comunque sempre esposto e narrabile nella sua unicità: un che, in quanto pure Chi, sin dal suo venire al mondo è continuamente scosso dal domandare altrui e sollecitato a dare una risposta su di sé.

Non è, allora, forse un caso, allora, che Arendt ricorra alla parola novel per aggettivare la creature di Agostino: termine quest’ultimo che – in un gioco di semantizzazioni – nella sua immediatezza rimanda certamente a un significato di ‘novità’, ma anche implicitamente a quello di ‘novella’.

Colui che nasce, infatti, per Arendt, porta con sé un racconto, la cui narrazione è, però, inevitabilmente affidata ad altri.

D’altronde la nascita sfugge a qualsiasi consapevolezza o sforzo di memoria individuale. Nessun essere umano rammenta la sua nascita, che pure è rivelazione del proprio sé unico e irripetibile.

In questo senso agostinianamente il Chi dell’uomo è, a sua volta, necessariamente relazionale e non può che realizzarsi in una trascendenza di tipo linguistico: sono, infatti, gli altri i testimoni del nostro natale e, in quanto Chi, noi possiamo aspirare a uno statuto ontologico solo in quanto gli altri ci raccontano.

Agostino, dunque, a parere di Arendt, con questo suo implicito riferimento agli aspetti dialogici della nuova creatura giunge persino a ri-pensare la trascendenza: non più intesa, oramai, come un procrastinare l’essere dell’uomo a un oltre, ma come irruzione dell’inatteso nella storia[11].

“Lo scopo della creazione  dell’uomo – scrive Arendt – fu di rendere possibile un inizio: ‘Acciocché vi fosse un inizio, fu creato l’uomo, prima del quale non ci fu nessuno’, ‘Initium… ergo ut esset, creatus est homo, ante quem nullus fuit’”[12].

Sul fronte esistenziale il filosofo cristiano traccia così inaspettate piste di ricerca e introduce nuove pratiche di pensiero: anzitutto l’indicazione di una vita innovativa, quella che – data alla nascita – consente un continuo rovesciamento degli status quo;  e, dall’altra, la proposta di pensare la nascita come ri-attualizzazione dell’uomo e del mondo stesso.

Dal punto di vista arendtiano, è perciò grazie ad Agostino che l’uomo è attualizzato e libero in virtù della spontaneità natale. Del resto agostinianamente, come sottolinea Julia Kristeva, è solo la vita che “accade alla nascita”[13], che è “portatrice di tempo”[14] e, a fronte di ciò, è capace di declinare il mondo.

Se, infatti, Dio principia, l’uomo inizia, cioè “inserisce nascite e azioni” [15], dunque trasforma la Creazione divina in mondo. E ciò rovescia il risultato stesso di tutta l’attività creatrice. Non semplicemente, cioè, l’uomo si contenta del mondo così come è, ma lo trasforma nel suo mondo, in una dimora, sia pure problematica, per quel se stesso che non può essere mai dimenticato, ma che deve affondare ‘buone’ radici: ossia trovare fondamento in un initium e al contempo fondarlo.

Il tempo della nascita è agostinianamente pensato da Dio a garanzia della libertà. Esso è, nella lettura arendtiana, una sorta di escamotage che consente al Creatore di introdurre il libero arbitrio tra le cose del mondo. In questo senso, insiste la fenomenologa,  l’Uomo non è mai il semplice prodotto di una moltiplicazione: non viene, infatti, creato “’in moltitudine’”, come mero esemplare di una specie animale, bensì creato “singolarmente”[16] : una singolarità potente a fronte della tua ‘generatività’ e che agostinianamente ha a che fare con l’essere persona, o meglio con quel fatto linguistico che, sottolinea Arendt, “’nessuno’ […] si potesse chiamare ‘persona’ […]”[17].

 

 

 

[1] H. ARENDT, La vita della mente, trad. it., il Mulino, S. Giov. Persiceto (BO) 2006,  p. 544.

[2] Ibi,  p. 546. Per un approfondimento sull’argomento A. PAPA, Natum esse. La condizione umana, Vita e Pensiero, Milano 2018.

[3] Ibi, p. 546.

[4] H. ARENDT, Vita activa. La condizione umana, trad. it., Bompiani, Milano 1998, p. 9.

[5] Ibi, p. 10.

[6] Ibidem.

[7] Ibi, pp. 9-10.

[8] Ibi, p. 243, nota 2 al primo capitolo.

[9] ARENDT, La vita della mente,  p. 546.

[10] H. ARENDT, The Life of the Mind, One/Thinking. Two/Willing, vol. 1, A Harvest Book- Harcourt, Inc., San Diego-New York-London 1978, p. 217.

[11] Cfr. BOELLA, Hannah Arendt. Amor Mundi, p. 140.

[12] ARENDT, La vita della mente, p. 546.

[13] J. KRISTEVA, Hannah Arendt. La vita, le parole, trad. it., Donzelli  editore, Roma 2005,  p. 48.

[14] Ibidem.

[15] Ibi, p. 49.

[16] Ibidem.

[17] ARENDT, La vita della mente, p. 429.

 

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