Kurt Bayertz
“La bioetica è per la filosofia il banco di prova della realtà”
intervista a cura di Alessio Musio
Professore, Lei ha pubblicato nel 1987 un libro con un titolo significativo: Gen-Etihk. Probleme der Technisierung der menschlichen Fortpflanzung (Gen-Etica. Problemi della tecnicizzazione della generazione umana). Che cosa considera ancora attuale di questo testo?
Credo che il libro possa essere considerato attuale nella misura in cui individua le posizioni fondamentali che fanno da sfondo ai dibattiti bioetici, ovvero la distinzione fra ciò che io chiamo l’approccio sostanzialistico e quello soggettivistico. Il primo è proprio di chi ritiene che esita una sostanza (o una natura) dell’uomo strettamente vincolante in termini normativi per quanto riguarda l’agire umano nell’ambito delle bio-tecnologie e della medicina. Il secondo è quello in cui la natura umana è considerata come un puro dato di fatto più o meno casuale dal quale non è possibile eo ipso derivare alcuna norma, e in cui l’essere umano è considerato in primo luogo non come sostanza o natura ma come soggetto. Poiché queste due impostazioni sono ancora sul campo, il libro può essere considerato attuale. Non è attuale, se invece consideriamo il dibattito rispetto alle tecnologie che danno oggi consistenza ai dilemmi bioetici: quando ho scritto il libro, la fecondazione in vitro era qualcosa di assolutamente inaudito in Germania, mentre oggi è una prassi estremamente diffusa. E il libro è nato proprio dalla domanda che io stesso mi sono posto sul significato morale di questa tecnica.
Vorrebbe presentare ai nostri lettori l’intuizione che sta alla base del titolo? In particolare, che significato attribuisce all’espressione Gen-Etica? Alcuni autori (penso per esempio a Sloterdijk) assegnano a questa espressione un significato molto forte, quasi si trattasse del progetto inquietante di costruire una nuova etica attraverso la costruzione di una diversa “base” antropologica, servendosi a tale scopo della genetica. Prevedeva un simile sviluppo?
Io non ho mai letto nulla di Sloterdijk! Quando ho scelto il titolo, non ho pensato che potesse portare ad una simile interpretazione, che in ogni caso non mi appartiene: io facevo riferimento soltanto ad un’etica relativa alla riproduzione umana e, dunque, a ciò che ha a che fare, in qualche modo, con la genetica in una società liberale. Certamente, però, si può intendere l’espressione nel senso dell’etica dell’evoluzionismo, ossia di una base genetica dell’etica, ma questa non è nel modo più assoluto la mia prospettiva. In ogni caso il titolo è un gioco di parole [ottenuto, in italiano, attraverso la scomposizione della parola genetica, ndt] che, però, mi è subito parso una buona idea. Che io sappia, era la prima volta che veniva utilizzata questa espressione, poi ripresa da autori americani ed inglesi…
Lei mi costringe, però, adesso a farLe una domanda su Sloterdijk. Davvero non ha mai letto nulla di Sloterdijk? Nemmeno il testo, per molti così shockante, Regole per il parco umano?
No, davvero. Ho sempre avuto l’impressione che Sloterdijk sia un filosofo alla moda, che cerca quelle tesi che possono colpire il grande pubblico, magari sconcertandolo, ma non considero il suo un pensiero serio. Certamente Sloterdijk muove sullo sfondo di grandi motivazioni filosofiche, ad esempio la lotta contro la casualità (che viene proposta anche in volumi come From Chanche To Choiche. Genetics and Justice di N. Daniels – tra altri – o Fabricated man. The ethics of genetic control di P. Ramsey) ma non penso che siano queste le ragioni che spingono una coppia ad andare in un ospedale e richiedere, per esempio, la fecondazione in vitro. Con questo non voglio dire che la questione sia falsa, ma che è l’espressione di una astrazione filosofica, forse un po’ distante dall’esperienza reale di molte persone (quella coppia non si presenterebbe, verosimilmente, in ospedale dicendo: “vogliamo sostituire il caso con la razionalità”, ma dicendo: “non riusciamo ad avere figli”). E poi: cosa vuol dire sostituire il caso con la razionalità? Il concetto di razionalità è molto aperto, è formale: di quale razionalità stiamo parlando, che contenuti deve avere, verso quali scopi? Questi, semmai, sono i veri temi e sono enormemente più complessi. Mi sembra per tale ragione una discussione che conferma che “il diavolo – come diciamo noi in Germania – si nasconde nei dettagli”, come a dire che i dettagli sono in realtà la questione decisiva, e qui sono proprio i dettagli, molto significativamente, a mancare (e forse questo non è un caso dal momento che si vorrebbe assumere la regia dell’evoluzione). Per non parlare poi del problema di come individuare scopi condivisi in merito all’immagine dell’uomo e della realtà in una società contraddistinta dal fatto del pluralismo, per usare un’espressione di Rawls.
Mentre molti filosofi si occupano di bioetica, altri la considerano, invece, con sufficienza, se non con disprezzo: può dirci la Sua opinione in proposito? È d’accordo con la tesi secondo cui la bioetica è il banco di prova delle nostre convinzioni filosofiche, il loro test di realtà per così dire?
Io credo che l’impressione della bioetica come una sorta di filosofia di “seconda classe” non sia più così diffusa. Quando ho scritto il libro di cui abbiamo parlato, nessuno in Germania, se qui non sbaglio, aveva fatto l’abilitazione con un volume a proposito di temi di bioetica. Oggi questa non è più una novità. Credo che in questi vent’anni la bioetica, ma tutta l’etica applicata nel suo complesso, abbia acquisito una buona reputazione, per la semplice ragione che essa ha a che fare con problemi reali che esistono nella società e che, soprattutto, la società riconosce come tali e per i quali richiede una soluzione. La mia paura è, semmai, che in molti sopravvalutino la bioetica, che le chiedano troppo rispetto alle sue capacità e ai suoi reali compiti…
Quasi il rovescio della medaglia, l’altra parte…
Si, l’altra parte, soprattutto quella dei politici, che tendono ad assegnare nella società una posizione privilegiata alla bioetica che di fatto essa non può e non deve avere e che rischia di essere una negazione della loro responsabilità (mentre i politici sono eletti, i filosofi non lo sono e, dunque, la loro responsabilità è diversa). Certamente l’apporto della bioetica è imprescindibile e insostituibile nel processo decisionale di una società democratica, ma non è il tutto del processo: è solo una parte, per quanto importante. Comunque, per ritornare alla Sua domanda, credo che, senz’altro non tutti, ma alcuni filosofi siano insofferenti rispetto alla bioetica, perché la bioetica li costringe ad avvicinarsi “troppo” alla realtà, richiede loro un contatto troppo ravvicinato con essa e del quale, forse, hanno paura, anche perché, effettivamente, la realtà, attraverso le questioni bioetiche, mette alla prova – per usare la Sua espressione – le nostre convinzioni filosofiche.
So che Lei polemizza con l’espressione esperti morali: potrebbe spiegarci il perché? Ritiene che la bioetica possa essere considerata il luogo del senso comune o (come si potrebbe dire in italiano e con un linguaggio non filosofico) del semplice buon senso?
Non penso che la bioetica sia il luogo del senso comune: richiede competenze e in questo senso certamente anche degli esperti (non può essere il luogo dell’improvvisazione). Ma per far capire la mia perplessità rispetto all’espressione esperti morali, vorrei proporre qui una distinzione fra etica e morale e, dunque, tra esperti etici e esperti morali. Io penso che i filosofi e i teologi, e più in generale gli eticisti, debbano essere considerati esperti di etica, ossia profondi conoscitori delle teorie e delle argomentazioni etiche, ma non credo che debbano essere considerati (né che debbano diventare) esperti della morale di fatto vissuta in una società, ossia coloro che decidono quale sia la morale di quella società. Certo il loro parere può e deve influire sulle decisioni, esso non può, però, valere come decisione. Lasciare che siano i filosofi in una società democratica a determinare la morale, perché considerati esperti, mi sembra estremamente pericoloso e, dunque, inaccettabile. La nozione di esperti morali, dunque, mi pare in questo senso incompatibile con il modello della democrazia.
Kurt Bayertz è Professore Ordinario di Filosofia Pratica presso l’Università di Münster
(Questa intervista è stata rilasciata nel 2006, trad. dal tedesco di A. Musio)
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