1. Il sottotitolo potrebbe essere: “ripensare la presenza politica dei cattolici nella condizione postmoderna”; che implicherebbe l’impegno a comprendere la condizione storica in cui viviamo, lavoro culturale, paziente e complesso, di cui sarebbe buona cosa sentire l’istanza, come di qualcuno che si avvede di essere su un cammino che lo conduce fuori dal territorio già noto, di cui non conosce ancora la topografia e per il quale ha pochi riferimenti sicuri.
Quanto alla politica tale insicurezza si documenta con grande evidenza con l’usura delle forme tradizionali della politica dell’Italia repubblicana e dell’Europa postbellica: crisi della statualità e della identità nazionale; delle forme rappresentative del partito e del sindacato; delle politiche centraliste e welfariste; dei rapporti capitale-lavoro; del nesso tra percorsi formativi e ruoli sociali; ecc. Per cui la domanda diventa: che cosa ne è in tutto ciò del politico? Che senso può avere parlare di bene comune? Non è proprio il “comune” ciò che è difficilmente definibile? La crisi d’epoca si sintetizza, con buona probabilità, precisamente nella perdita dell’ “universale politico”.
Quanto ai “cattolici”, credo che in questa svolta d’epoca si debbano riproporre anzitutto dei riferimenti per così dire metodologici, prima che strategici, per evitare – se possibile – di seguire percorsi di un pensiero della politica già vecchio prima di nascere.
Di tali riferimenti riesco a formulare i seguenti, che avverto come primari.
2. Il cattolico consapevole non può non essere interessato alla politica, perché la sua stessa esperienza di credente lo rende sensibile alla dimensione sociale e a quella dei bisogni, alla questione del bene comune e a quella dell’unità; non solo il cattolico che si dedica “professionalmente” alla politica, ma ogni cattolico in quanto cittadino. Anzi, la prima caratteristica dovrebbe essere precisamente questa, che l’intera comunità cattolica sia impegnata politicamente, quanto al senso civile e quanto alla sensibilità culturale a questo relativa.
3. Nella condizione della crisi del politico, il cattolico non può che riandare ai suoi fondamenti pratici e teorici. Anzitutto al suo fondamento teologico. L’impegno politico è stato chiamato la forma più alta della carità, per indicare la sua partecipazione al provvidente governo divino del mondo e alla sua cura per i bisogni dell’uomo. In sintesi, a fondamento del far politica sta per il cristiano la stessa regalità di Cristo, che è autentico Signore e autentico Servo dell’umanità: è la regalità reale e paradossale che Cristo rivela a colloquio con Pilato… In altri termini, la politica è forma della carità, se partecipa della “compassione” di Cristo per il bisogno, le povertà, lo smarrimento degli uomini: pastore buono che aiuta, soccorre, provvede, guida; diverso da quello che sfrutta, sfianca e fugge nel pericolo, come stigamatizzano il profeta Ezechiele (cap. 34) e poi il vangelo di Giovanni (10, 1-18). Per questo il cattolico quanto alla politica dovrebbe continuare a educare il senso religioso della sua insufficienza strutturale e della sua fiducia in Dio: “Se il Signore non costruisce la casa, invano vi faticavano i costruttori; se il Signore non custodisce la città, invano veglia il custode” (Sal. 127, 1). Considerazioni che qualcuno sentirà come lontane e vaghe premesse (mostrando così di non comprendere che cosa veramente quelle significano), mentre dovrebbero costituire l’identità spirituale, e anche etico-culturale, del cristiano in quanto ha a che fare con la politica. D’altra parte è proprio questo tipo di coscienza che lo rende creativo, onesto, resistente (alle tentazioni dell’interesse e/o dell’ideologia), nobile; si pensi agli Sturzo, De Gasperi, La Pira, diversi nelle strategie politiche, ma così simili come alto sentire della politica per cui è difficile pensare che qualcosa di nuovo e degno possa avvenire in questo ambito dal punto di vista cattolico senza che tale sorgente interiore sia viva.
Le considerazioni fatte hanno molto a che fare, dunque, con l’identità spirituale e culturale del cittadino cattolico, ma nulla a che fare con un’idea “confessionale” della politica. Piuttosto aiutano ad averne un’idea antropologicamente profonda e storicamente realista, che può articolarsi nei seguenti tre punti.
4. Dalla sua sensibilità personalista e comunitari il cattolico è facilitato a capire che la politica non è potere o struttura sovrapposti alla vita civile, bensì è anzitutto dimensione interna alla società civile: la dimensione politica sanamente intesa coincide con la “politicità” del vivere civile. L’uomo non ha bisogno di “fare politica” per essere un “soggetto politico”; al contrario, sa di essere “politico” perché partecipa della vita sociale, che di per sé pone il problema di ciò che è comune, della giustizia, della convivenza, delle finalità condivise, pone dunque le domande politiche. In questa prospettiva è inaccettabile la privatizzazione del vivere civile a confronto con una supposta “pubblicità” esclusiva delle istituzioni preposte al governo del sociale.
La filosofia sociale moderna – rompendo con la tradizione dell’“umanesimo civile” – è caratterizzata invece dalla polarità di Stato e mercato. E la crisi della modernità politica comprende, perciò, anche la crisi di questi modelli (nella loro versione illuminista anglosassone e hegeliana tedesca), che tuttavia faticano a lasciare il posto a un completo superamento, in cui l’istanza di libertà individuale riesca a coniugarsi davvero con l’istanza etica del bene comune; per cui il presente politico oscilla ancora tra forme rinnovate di statalismo garantista e rivendicazione di libertà economica come principio di rinnovamento civile.
Dai limiti della modernità si esce solo ponendo al centro del pensiero politico la questione della società civile. Lo schema classico nella modernità, incentrato sulla polarità di Stato (pubblico e universale) e società mercantile (privato e particolare), deve lasciare il posto a una tripolarità incentrata sulla società civile, composta dalle molte soggettività reali in costante riorganizzazione pluralistica e oggi impegnate anche in una necessaria interculturalità. Questo è possibile nella misura in cui matura una coscienza civile che non accetta la partizione tradizionale del pubblico statuale e del privato mercantile, ma rivendica attraverso il proprio protagonismo sociale la consistenza, anzi il primato del pubblico civile non statale come primario ambito storico e politico.
Come dice la Centesimus annus, «è nel molteplice intersecarsi dei rapporti che vive la persona e cresce la ‘soggettività della società’. L’individuo oggi è spesso soffocato tra i due poli dello stato e del mercato. […] mentre si dimentica che la convivenza tra gli uomini non è finalizzata né al mercato, né allo Stato, poiché possiede in se stessa un singolare valore che Stato e mercato devono servire» (n. 49). Così intesa la società civile, rispetto all’impersonalità normativa dello Stato e alla neutralizzazione dei rapporti mercatali, costituisce un fattore di umanizzazione e di civilizzazione basilare, oggi alternativa.
5. Questa visione di fondo della politica esige di essere culturalmente e dottrinalmente sostenuta, perché non è conforme alla coscienza moderna del politico e perché ha bisogno di essere stabilmente aggiornata e verificata nel contesto della crisi postmoderna. Per questo la sensibilità politica dei cattolici ha bisogno di essere sostenuta e educata in modo consono alla riflessione che la Chiesa ha elaborato in proposito con la sua Dottrina sociale. Se l’omaggio formale a questo patrimonio di pensiero non manca, la conoscenza e l’assimilazione delle grandi direttrici della Dottrina sociale non sono affatto consuete e diffuse nella stessa comunità cattolica. Soprattutto non mi sembra ampiamente condivisa la coscienza della funzione che tale magistero ha quale mediazione indispensabile tra fede e cultura politica; cioè come elaborazione teologica (proposta dal Magistero) della questione sociale che, fornendo un articolato orientamento valoriale, evita sia il cortocircuito tra fede e politica, sia la loro estraneità.
La Dottrina sociale costituisce un codice etico-sociale condivisibile da tutti i credenti, in cui la Chiesa propone le prime mediazioni della fede nella storia sociale del tempo e così aiuta la fede a non smarrirsi e a non ritrarsi nella complessità dei problemi oppure a non interpretare la cosa socio-politica in modo “ideologico”, svincolato dai criteri basilari dell’etica pubblica cattolica.
Nell’ultimo secolo il patrimonio della Dottrina sociale si è straordinariamente arricchito e ha accresciuto insieme la coscienza di essere un cantiere sempre aperto all’aggiornamento e alla verifica dei suoi asserti.; per cui le esperienze sociali e le riflessioni teologiche e culturali dei credenti sono pertinenti e significative per la vitalità stessa della Dottrina.
6. Attenzione “politica” alla società civile e interesse dottrinale etico-politico danno rilievo a un duplice impegno del cattolico in ordine alla politica: le opere sociali e il lavoro culturale.
Le opere sociali, anzitutto, nel solco di tale grande tradizione cattolica, aggiornata secondo i bisogni e le possibilità del tempo. Primato della società civile, infatti, significa anche che il normale contatto con la politica si dà per il tramite della dimensione politica delle opere sociali stesse, che si inseriscono nel tessuto politico di un Paese come istanza di solidarietà e di sussidiarietà, cioè come forme di pratica politica realista e fondamentale.
Indisgiungibilmente connesso a questo impegno non può non esserci quello culturale, sollecitato e sostenuto dalla prassi sociale, per sostenerla e alimentarla a sua volta: opere sociali senza cultura etico-socio-politica sono cieche e questa senza quelle è vuota, potremmo dire. Un lavoro culturale, dunque, che fa riferimento effettivo alla Dottrina sociale e che si estende come tentativo di lettura e interpretazione del tempo storico in atto, non solo come riflessione competente in sinergia con gli ambienti specializzati, ma anche come approntamento di strumenti utili ai diversi operatori sociali, alle varie categorie professionali, ecc.
Due ambiti mi sembrano esemplificare con particolare evidenza il bisogno di una riflessione critica per la vita politica del nostro Paese, quello della comunicazione sociale e quella dell’amministrazione pubblica; l’una sempre più inquinata da settarismo e provincialismo, che condizionano pesantemente la vita sociale e politica, l’altra endemicamente sotto il livello di una prassi che garantisca professionalità e virtuosa continuità istituzionale, con esiti di ritardi e dispendi che attentano direttamente a ogni elementare criterio di bene comune.
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