A. Pessina, Sandel e l’eugenetica

La questione dell'eugenetica in un recente libro di Sandel
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La sfida della perfezione nell’epoca dell’ingegneria genetica.

Le critiche del filosofo Michael J. Sandel  all’eugenetica “liberale”.

 

                Il filosofo americano Sandel è uno studioso noto a chi si occupa delle questioni che riguardano la cosiddetta “filosofia della politica” americana: se si assume per buona la canonica distinzione tra i cosiddetti liberali e i comunitari, Sandel viene ascritto a questa seconda area di pensiero, impegnata a correggere il dogma liberale americano dalle sue punte maggiormente soggettivistiche e a discutere il formalismo presente nell’opera di Rawls.

                Sandel ha fatto parte del Comitato presidenziale per la Bioetica americano e il libro recentemente edito da Vita e Pensiero è il frutto di questa stagione di riflessione (Michael J. Sandel, Contro la perfezione. L’etica nell’età dell’ingegneria genetica, Milano 2008). L’argomento e la notorietà dell’autore sono perciò immediati richiami alla lettura di questo breve saggio, molto ricco di esempi concreti tratti dalla cronaca, per lo più americana, ma di per sé non molto distanti da ciò che avviene (e potrà avvenire anche da noi).  Gli esempi rimandano a due ordini di temi e di problemi: i potenziamenti farmacologici indotti per migliorare le prestazioni fisiche degli atleti, paradigma della possibilità di incrementare le nostre doti non soltanto fisiche, ma anche psichiche, come la memoria e le capacità intellettive; l’uso della procreazione extracorporea per selezionare, modificare e persino migliorare (almeno nelle intenzioni) i propri figli, determinando il progetto (già lungamente auspicato dal filosofo inglese Harris) di creare una nuova razza “superiore” di uomini.  Ciò che Sandel chiama eugenetica liberale” è appunto quest’ultimo progetto, che si differenza dall’eugenetica imposta ai primi del Novecento da una lettura darwiniana della condizione umana e sfociata nel programma di sterminio operata dal nazismo di tutti quanti non corrispondevano al modello della razza ariana. Secondo molti filosofi liberal l’eugenetica attuale sarebbe buona proprio perché libera e volontaria e risponderebbe al desiderio di migliorare l’uomo più ancora che all’intento di discriminare ed eliminare coloro che portano nel corpo e nella mente i segni di una umana imperfezione. Sandel  mostra, peraltro, come anche queste scelte possano essere ampiamente condizionate dal contesto sociale e dalle pretese che l’ambiente culturale e politico proietta sulle aspettative dei genitori e sulle loro aspirazioni.

                Ciò che però risulta, per così dire innovativo, nel saggio di Sandel, è il tentativo di pensare alla questione del miglioramento  biotecnologico dell’uomo mettendo da parte l’evidente ingiustizia e immoralità del mezzo selettivo in termini di distruzione degli embrioni o dei feti umani che si presentano affetti da patologie. La domanda centrale potrebbe perciò essere formulata così: qualora non si dovesse ricorrere alla distruzione di embrioni e di feti, ci sarebbe qualcosa di sbagliato nel progettare i propri figli e nel cercare di migliorarne le qualità ricorrendo all’ingegneria genetica?. Questo tema, come è noto, è stato affrontato recentemente anche dal più celebre filosofo della politica tedesco, J. Habermas, nel saggio Il futuro della natura umana. E il titolo originale del saggio di Sandel mette bene in luce questo tema contrapponendo la casualità  dell’origine, che si avrebbe nella generazione normale, che avviene nella relazione anche fisica tra un uomo e una donna, e la generazione in provetta, nella quale si potrebbe intervenire per progettare e migliorare le qualità del proprio figlio: The Case against Perfection. Tra caso  e perfezione indotta biologicamente, che cosa scegliere e in nome di che cosa?  Sandel ritiene che ci si debba astenere sia da un miglioramento delle prestazioni fisiche (che poi è un altro nome per indicare il doping) sia da quello genetico (l’eugenetica liberale) in nome della categoria del dono.  Sandel ritiene, infatti, che questi interventi ci facciano perdere di vista sia la capacità di apprezzare i nostri doni naturali (che sarebbe, invece, sostituiti da artifici biochimici), sia di coltivare quell’amore incondizionato per i figli, aspetti, questi,  che costituiscono anche lo sfondo della solidarietà umana. La nozione di dono, che per Sandel può essere intesa anche in chiave laica e non soltanto religiosa, non comporta il fatalismo: ciò che è in discussione non è la dimensione terapeutica della medicina, ma la sua dimensione progettante e perfezionante.  Ora, sebbene in estrema sintesi, va detto che l’approccio di Sandel, interessante, non risulta molto convincente, per diversi motivi. In primo luogo non è ben chiaro come intendere la questione del dono[1]: perché chiamare dono  un semplice fatto, e cioè avere qualità naturali, fisiche o psichiche, più o meno accentuate? In secondo luogo, perché non definire dono  anche le qualità progettate dai genitori per i propri figli? Per chi riceve, se vale la nozione di dono, il dono resta tale anche se il donatore è Dio, il caso, la natura o l’intervento biotecnologico indotto dai genitori. A ciò si aggiunga che non esiste di per sé alcuna contraddizione tra il progetto e l’amore incondizionato e accogliente, che potrebbe sussistere anche qualora il figlio fosse frutto di una modifica biotecnologica. 

                Sandel perde in realtà l’occasione per approfondire una questione molto più radicale, e cioè quella connessa con il significato stesso di perfezione. Infatti, mentre in linea di principio non esiste alcuna obiezione rispetto al progetto del perfezionare l’umano, è tutt’altro che chiaro in che cosa consista la perfezione dell’uomo e quale sia il termine di un progetto di perfezionamento per un essere contingente e finito come l’uomo stesso, in linea di principio sempre ulteriormente perfezionabile. Qual è il modello umano in base al quale perfezionare e perfezionarci?  Sandel sfiora e non approfondisce anche un’altra questione, più semplice: il fatto che i progetti di perfezionamento dei genitori nei confronti dei loro figli sono spesso la proiezione delle frustrazioni psicologiche e fisiche di  quanti sono insoddisfatti della loro umanità e non sanno accettarsi per quello che sono.  Le biotecnologie non rischiano di essere , in fondo, il mezzo pericoloso (perché irreversibile, imprevedibile  e spersonalizzante) con il quale gli adulti tentano di creare un surrogato della perfezione  a cui non sono giunti?

                Il punto più debole, però, dell’intero saggio, è costituito dall’epilogo, dove Sandel pensa di poter coniugare la sua tesi del dono con la sperimentazione (distruttiva) sugli embrioni umani al fine di ricavare cellule staminali a scopo terapeutico. Basti qui segnalare l’argomento con cui Sandel pensa di poter negare che la continuità biologica tra l’embrione umano e l’adulto possa garantire il convincimento sia della natura personale dell’embrione, sia quello della sua dignità intrinseca. Sandel ricorre alla celebre figura sofistica del sorite  per affermare che non si può stabilire che l’embrione umano sia persona umana con piena dignità, benché si possa dire che l’adulto (che è l’esito dello sviluppo embrionale) sia persona umana dotata di dignità. Il paradosso del sorite è noto e Sandel  lo ricorda così: quando posso stabilire che c’è un mucchio di grano, visto che non bastano uno o due chicchi di grano per fare un mucchio? Quanti ce ne vogliono allora? Il fatto che non esiste un numero arbitrario di chicchi per stabilire quando c’è un mucchio di grano non significa che non esiste una differenza tra un chicco e un mucchio. Così, secondo Sandel,  la “ continuità evolutiva dalla blastocisti all’embrione impiantato, al feto, al neonato, non significa che il bambino e la blastocisti siano, moralmente parlando la stessa cosa”. Perciò, riassumiamo, secondo Sandel, così come il chicco non è un mucchio di grano, l’embrione umano non è una persona, mentre lo è l’adulto. Ora, al di là di altre considerazioni di contenuto, al celebre filosofo sfugge l’inconsistenza totale dell’analogia. Nel paradosso del sorite la continuità non è altro che la giustapposizione nello spazio di molti enti (in questo caso dei chicchi di grano), mentre nel caso dell’embrione abbiamo il medesimo ente che si sviluppa nel tempo e nello spazio. Non comprendere la differenza tra lo sviluppo del medesimo organismo e l’accostamento di molti enti significa precludersi la comprensione tra una definizione che riguarda la struttura di un ente (essere persona umana) e la definizione che riguarda l’unità numerica di una pluralità di enti identici (il mucchio di chicchi, o una classe di studenti).

                Il testo di Sandel, al di là di alcune debolezze teoriche, merita comunque di essere letto perché ci permette di tornare, nell’epoca delle biotecnologie, alla questione fondamentale della pensabilità della perfezione umana.  Soltanto rispondendo alla domanda “chi è l’uomo?” si potrà forse rispondere alla domanda sulla sua aspirazione alla perfezione. Ma appunto, chi sono io? Per dirla con Agostino “Quaestio mihi factum est” (sono domanda a me stesso): astenersi dall’imporre una risposta ad altri è ancora l’unico modo per rispettare la dignità nostra e altrui.

 

Adriano Pessina                

[1] Sulla questione del dono  e sui possibili equivoci indotti dalla metafora del dono della vita  mi permetto di rimandare ad un mia disamina nel volume A. Pessina, Eutanasia. Della morte e di altre cose, Cantagalli, Siena 2007.

 
 
 

 

 


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