Alessio Musio- «Globalizzazione dell’indifferenza­» e liberalismo

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Il senso di questo scritto è di cogliere il nesso che lega la cosiddetta globalizzazione dell’indifferenza al liberalismo, colto a partire da una delle sue declinazioni più influenti e significative. L’espressione globalizzazione dell’indifferenza è di Papa Francesco che se ne è servito nel corso del suo viaggio a Lampedusa, per portare al centro dell’attenzione la tragedia di tutti quei migranti che ogni anno muoiono in mare sulle nostre coste, in «quelle barche che invece di essere una via di speranza» divengono «una via di morte»[1]. La pietas umana e cristiana del Papa ha avuto, a ben vedere, un duplice bersaglio. Da un lato, ha inteso mostrare l’importanza di cambiare la logica burocratica e calcolatrice delle nostre politiche di accoglienza/respingimento. Il rifiuto di utilizzare l’implacabile etichetta politico-giuridica di “clandestini” e la scelta del termine “migranti” ha, da questo punto di vista, un significato decisivo nella misura in cui mette in primo piano la legittimità politico-esistenziale di questi uomini e donne e dei loro bambini ad esistere al di là dei confini inospitali dei loro Paesi. Dall’altro, ha cercato di togliere la maschera politicamente corretta dell’indifferenza diffusa che ci impedisce perfino di piangere di fronte alle forme tragiche del destino – ed è su questo aspetto che intendiamo concentrarci.

L’obiettivo di Papa Francesco era, dunque, ben mirato e non deve sfuggire il nesso che lega la condizione degli odierni migranti a quella degli apolidi di cui ragionava Hannah Arendt sul limitare del tragedia nazista quale vero e proprio banco di prova (a suo dire fallimentare) della cittadinanza e della logica dei diritti umani. A ben vedere, però, le sue parole hanno configurato sullo sfondo una diagnosi più ampia, come si evince dal riferimento centrale del suo intervento alla «cultura del benessere». Portandoci «a pensare a noi stessi», questa «ci rende [infatti] insensibili alle grida degli altri», facendoci «vivere in bolle di sapone, che sono belle, ma non sono nulla, sono l’illusione del futile, del provvisorio», sulla base di un atteggiamento esistenziale «che porta all’indifferenza verso gli altri, anzi alla globalizzazione dell’indifferenza» – ecco comparire il tema. Da qui, allora, la riflessione si allarga: tra i risultati non soddisfacenti della globalizzazione va annoverato il consolidarsi di un vero e proprio ethos dell’indifferenza da intendersi secondo un duplice significato, rigettato nella sua interezza dal Papa: l’indifferenza come prassi e la proposta dell’indifferenza come valore.

Si origina, così, il nesso con il liberalismo, almeno in una delle sue figure più rilevanti. Se ci chiediamo, infatti, che cosa sia alla base della tentata legittimazione pratica e teorica dell’indifferenza, non è possibile non guardare al liberalismo e, in particolare, a quella cultura liberale in cui il primato spetta al soggetto, ai suoi desideri, alla sua libertà – nulla più del liberalismo si promuove, appunto, come terreno fertile del benessere. Certo, il liberalismo ha tante facce, tanti filoni e una lunghissima tradizione. Ma, come bene ha colto Foucault (che si concentrava in particolare sull’ordoliberalismo tedesco e il neoliberalismo della scuola di Chicago[2]), esiste una cultura liberale che pone un nesso irriducibile tra se stessa e la dottrina economica del libero mercato, un liberalismo in cui, insomma, l’enfasi va posta sul libero gioco economico ed è dalla sua protezione che deriva ogni altro assunto liberale (sia esso etico, giuridico o politico). In questa versione del liberalismo non c’è, dunque, in primo piano la difesa etico-politica di una soggettività desiderosa di libertà o l’affermazione di un sistema giuridico-istituzionale incentrato sulla divisione e il reciproco controllo dei poteri – tutto questo è semmai solo una conseguenza della libertà, nemmeno dei singoli partecipanti al gioco economico, ma del gioco economico stesso.[3]

Così, studiando questa centratura sulla tutela del libero mercato da tutti i suoi possibili nemici, in Nascita della biopolitica, Foucault aveva cercato di mostrare come l’insistenza liberale sulla libertà finisca per tradursi, in realtà, in primo luogo nell’indicazione di tutto ciò che è nemico della libertà stessa, vale a dire di ogni minaccia che possa incombere sul libero mercato. Ne viene che «la sollecitazione del timore del pericolo» – scriveva Foucault – diventa «in qualche modo la condizione, il correlato psicologico e culturale interno del liberalismo. Non c’è liberalismo senza cultura del pericolo»[4].

Ora, ad un primo sguardo tutto questo è certamente il contrario dell’indifferenza: chi vede ovunque nemici è tutt’altro che indifferente. Eppure, l’indifferenza è, a ben vedere, un correlato necessario di questa impostazione che finisce per appiattire nella libertà da quella libertà di che dovrebbe essere il centro di una dottrina della libertà e, dunque, la quintessenza del liberalismo – almeno nella vulgata per cui oggi quasi nessuno oserebbe non definirsi liberale. Infatti, in questo appiattimento, ciò che si realizza è proprio la trasformazione in grandezze eteronome, se non in veri e propri nemici, di tutti quegli elementi che determinano la possibilità di un ethos[5] di condivisione fra gli uomini. L’enfasi sulla decostruzione di ogni statalità, la scomparsa di qualsiasi riferimento sostanziale nell’ambito etico-politico, la dissoluzione stessa dell’idea di un bene comune, proprie di larghi settori della mentalità liberale, vanno inscritti in questo contesto. Ecco perché occorre comprendere davvero ciò che si nasconde dietro la polemica liberale verso «il grande fantasma dello stato paranoide e divoratore»[6]. E questo non per difendere un ruolo dello stato come garante della non-indifferenza, ma perché in questa impostazione lo stato diventa una sorta di catalizzatore attraverso cui il liberalismo (economico) riesce a nascondere la sua richiesta perentoria che pure le stesse istanze etiche e giuridiche cedano il passo al libero gioco economico: anche un’etica (o una morale) e un diritto non derivati dal libero gioco dell’economia di mercato sono, infatti, da inquadrare come nemici o fattori di pericolo.

Prendiamo l’esempio di una legge che per ragioni etiche sancisca l’impossibilità di vendere parti del proprio corpo, sottraendo, dunque, il bene del corpo umano al libero gioco del mercato, in questo caso al mercato che ha per oggetto la salute umana. Qui, evidentemente, un’impostazione morale pone dall’esterno una limitazione che da solo il mercato non si sarebbe dato. Come ragionerebbe un autore liberale di fronte ad una simile eventualità? La risposta ce la fornisce il testo (vd. nota 3) da cui abbiamo tratto l’esempio. Ebbene, dopo aver ammesso la complessità della questione, l’autore delinea due osservazioni significative: nella prima si chiede «in che senso possiamo considerarci “padroni del nostro corpo” […], se non possiamo privarcene», rivelando così un modello fortemente economicista di soggettività (l’homo oeconomicus lo chiamerebbe Foucault) che, non a caso, ha portato alla formulazione della scivolosissima locuzione «capitale umano», mentre nella seconda richiede di «accettare che ogni qualvolta si sottrae spazio al processo di scoperta del libero mercato [attraverso delle regole ad esso estrinseche], le conseguenze vanno oltre le intenzioni»[7] – per esempio: se si impedisce la vendita degli organi, si accetta che qualcuno muoia, così come se si proibisce per ragioni etiche la prostituzione, si accetta che questa si svolga nell’illegalità[8]. Al di là delle analogie e delle deduzioni, non del tutto convincenti, risulta chiara la richiesta, prima di tutto etica, di non intromettersi nel libero scorrere (ricco di svolte, errori ed imprevisti) del mercato, accettando di essere indifferenti ai problemi e alle storture non solo economiche che in esso pur si evidenziano. [9]

Nell’analisi di Foucault tutto questo era già detto in modo molto chiaro. Con dovizia di riferimenti testuali alle dottrine di Von Mises, Hayek, ecc., il pensatore francese ne aveva, anzi, colta la radice, mostrando come la logica liberale che cerca un argine al potere del governo e dello stato non derivi, come detto, da una difesa etico-giuridica della libertà del singolo intesa come bene da promuovere (il che si configurerebbe come una delimitazione “estrinseca”), ma da un’incapacità stessa del potere politico, del tutto intrinseca, di conoscere, comprendere e avere presa sul libero gioco economico: “al sovrano giuridico, al sovrano detentore di diritti e fondatore del diritto positivo a partire dal diritto naturale degli individui, l’homo oeconomicus [ossia il soggetto protagonista del gioco del mercato] è qualcuno che può dire: tu non devi, ma non perché io abbia dei diritti e tu non abbia il diritto di intaccarli. […] L’homo oeconomicus non dice questo. Certo anche lui dice al sovrano: non devi. Ma glielo dice in questa forma: non devi, perché non puoi. E non puoi nel senso che “sei impotente”. E perché sei impotente, perché non puoi? Non puoi perché non sai e non sai perché non puoi sapere”[10].

Si svela, così, la pretesa di questo filone liberale di non poter configurare alcun perimetro al liberalismo che non sia stato il liberalismo stesso a disegnare sulla base della sua matrice economica. Il gioco economico è, infatti, troppo complesso, imprevedibile, illimitato per essere governato: nessun sapere permette di prendere delle decisioni adeguate, ecco perché esso deve fluire liberamente e occorre restare indifferenti.[11] Ma se questa tesi, che è il cardine del liberalismo di cui stiamo discutendo, sembra tutta interna al gioco economico, in realtà è nell’etica che trova il suo significato decisivo, come dimostra il riferimento al rapporto sapere-decisione. Il liberalismo non ammette, infatti, l’esistenza di un’etica che lo preceda, la morale può solo essere dedotta dal libero gioco economico, al fine di legittimarlo in termini valoriali. Si tratta, in effetti, di una circolarità viziosa di non facile lettura (ciò che è dedotto deve poi legittimare ciò da cui deriva), ma che appare immediatamente allo sguardo non appena si annoti lo strano e affascinante confidare liberale nella virtù di quella fantomatica “mano invisibile” che dovrebbe, alla risulta, da Adam Smith sino ad oggi, riuscire ad accomodare ogni problema, derivante da tutto ciò che viene a mancare in termini di dover-essere e di condivisione.

Se Foucault osservava come fosse improprio confidare in questa imprendibile “mano invisibile” nei termini di una nuova forma interamente laica e immanente di provvidenza[12], e insisteva, invece, sul carattere decisivo della sua invisibilità/ignoranza – più che il sostantivo “mano” conta dunque l’aggettivo –, occorre allora cogliere il nesso tra questa impostazione e l’ethos dell’indifferenza richiamato dalle parole di Papa Francesco. Per quanto si tratti di un modello che non vorrebbe avere alle sue spalle alcun vincolo etico, il liberalismo (economico) diviene, infatti, per le ragioni dette, una vera e propria etica (anche il non-interferire del mercato è infatti un agire umano, come tale sottoposto al vaglio morale), il cui esito tende a consistere in una legittimazione pratico-teorica dell’indifferenza. «Il grande spartiacque che divide le letture dei fatti economici è questo. C’è chi pensa che l’economia sia come la fisica, regolata da leggi certe definibili attraverso l’osservazione. E c’è invece chi ritiene che l’economia somigli alla biologia […]. La concorrenza del mercato è come la sopravvivenza del più adatto di darwiniana memoria: che è appunto la sopravvivenza del più adatto, non del migliore o del più operoso o men che meno del più forte»[13]. Il non-detto della professione di fede nella mano invisibile consiste nel fatto che essa richiede l’etica dell’indifferenza, che si abbia, cioè, la forza (e alla fine soltanto l’abitudine) di distogliere lo sguardo dai problemi, dal destino infelice di chi nel gioco economico soffre o perisce, confidando invece che tutto si risolva da sé: ma non c’è provvidenza nel mercato e il liberismo economico, come iperbolicamente si potrebbe affermare con Foucault, è una disciplina atea.

Se è vero, pertanto, che la proposta culturale del liberalismo può ben essere sintetizzata attraverso le parole dell’antico proverbio cinese per cui «i fiori seminati a bella posta non crescono, mentre i salici di cui nessuno si è preso cura sono diventati alberi e danno ombra»[14] – che tradotto in termini etici significa: “non serve aver cura, è l’indifferenza, invece, ad essere una fonte del bene, del fiorire” – va detto che questa richiesta di indifferenza non porta automaticamente al benessere; essa esige anzi, darwiniamente il fallire di molti, per quanto meritori, ricchi di sogni e progetti, laboriosi essi siano[15]. Può darsi sia questa la miglior ricetta per il bene dell’economia stessa, ma l’economia non è il tutto dell’esperienza umana ed è curioso che ci sia voluto un Papa per dire che dietro la mano invisibile non si nasconde alcuna provvidenza.

La pietas di Papa Francesco, cui si è fatto riferimento all’inizio, non deve essere intesa, allora, soltanto come un atteggiamento di generosità proprio di chi ha la capacità di impegnarsi in prima persona, ma essenzialmente come la consapevolezza del nostro destino comune di uomini che ci richiede di non essere mai indifferenti e, perlomeno, di riconoscere che, quando accade, l’indifferenza non è mai un valore. Il cammino della giustizia comincia da qui.

 


[1] Visita a Lampedusa, Omelia del Santo Padre Francesco, Campo sportivo “Arena” in Località Salina, Lunedì, 8 luglio 2013. Il testo nella sua interezza è leggibile sul sito internet della Santa Sede all’indirizzo: http://www.vatican.va/holy_father/francesco/homilies/2013/documents/papa-francesco_20130708_omelia-lampedusa_it.html.

[2] M. Foucault, Nascita della biopolitica. Corso al Collège de France (1978-1979),trad. it., Feltrinelli, Milano 2005, p. 69.

[3] Non è un caso, come nota un autore certamente affine al contesto di pensiero indagato da Foucault, che risulta impropria per la mentalità liberale la consueta traduzione italiana dell’espressione anglosassone rule of law con l’espressione “Stato di diritto”: «spesso si traduce rule of law con stato di diritto, ma, non troppo curiosamente, della parola “Stato” nell’inglese non c’è traccia» (A. Mingardi, L’intelligenza del denaro. Perché il mercato ha ragione anche quando ha torto, Marsilio, Venezia 2013, p. 92) – ciò che conta è semplicemente che il diritto sia certo, non soggetto a cambiamenti repentini, in modo che il libero gioco economico possa svilupparsi non perturbato dall’esterno – in primo luogo dai desiderata valoriali dei governanti.

[4] Foucault, Nascita della biopolitica, p. 69.

[5] Anche qui come prassi e come valore, ma questa volta autentico.

[6] Ivi, p. 156. Una polemica che attualmente finisce per acquisire un consenso per intersezione, per così dire, da famiglie culturali di per sé distati dal liberalismo stesso, in primo luogo di estrazione cattolica.

[7] Mingardi, p. 59.

[8] Ibidem.

[9] Per quanto non sia questo il luogo, sarebbe interessante prendere in esame i diversi punti del testo in cui compaiono riferimenti a precise questioni etiche che motiverebbero puntuali limitazioni al mercato, per vedere come, in realtà, la diagnosi non cambi mai. Secondo quanto efficacemente rivelato dal titolo scelto da Mingardi, «il denaro ha sempre ragione, anche quando ha torto». Che la ragione possa essere vista solo alla fine del processo, mentre i torti siano ben visibili mentre noi siamo immersi nel suo scorrere, somiglia a quelle astuzie della ragione di hegeliana memoria e ne condivide la valutazione.

[10] Foucault, p. 232.

[11] Su questo si rimanda ancora alla bella Introduzione di Mingardi, dove si evidenzia, a partire dall’esempio della storia della produzione del telefono cellulare, come sia impossibile alcuna progettazione del mercato nel suo complesso (L’intelligenza del denaro, pp. 9-16): nessuno è in grado di sapere che cosa avverrà, il gioco economico non si basa su istanti, ma su processi che si intrecciano tra loro in modo non lineare e dunque imprevedibile e irreversibile – uno sguardo di sistema (ancora Smith) risulta impossibile.

[12] Foucault, p. 231 e ssg.

[13] Mingardi, p. 81.

[14] Il proverbio è l’esergo scelto da A. Mingardi per il suo testo.

[15] Infati, la meritocrazia, essendo una questione di giustizia (così Rawls), non ha nulla a che fare con il libero mercato.

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