Loretta Pistilli – Corpo, spazio e potere. Foucault e “Le dépeupleur” di Beckett

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L’analisi che propongo muove dal racconto Le dépeupleur (1970) (Lo spopolatore) di Samuel Beckett, che, rappresentando un universo articolato secondo un complesso ingranaggio nel quale gli individui appaiono irrimediabilmente presi, si lega ad uno dei presupposti teorici fondamentali dell’opera di Michel Foucault, quello del rapporto tra corpo, spazio e potere. Queste pagine vogliono essere il tentativo di ragionare intorno al tema del corpo in quanto aspetto centrale sia nella visione letteraria di Beckett per il quale il corpo si riduce alle sole determinanti biologiche, sia nella concezione foucaultiana che vede nel corpo il campo d’applicazione di un potere invisibile e anonimo, che non reprime ma che costringe gli individui all’interno di spazi panoptici in cui si produce la loro oggettivazione. Ne Le dépeupleur sembrano intersecarsi proprio quei due registri sui quali, come spiega Foucault in Sorvegliare e punire, venne scritto “il grande libro dell’uomo-macchina (…): quello anatomo-metafisico, di cui Descartes aveva scritto le prime pagine e che medici e filosofi continuarono; quello tecnico-politico, costituito da tutto un insieme di regolamenti militari, scolastici, ospedalieri, e da processi empirici e ponderati per controllare o correggere le operazioni del corpo. Due registri ben distinti (…) E tuttavia, tra l’uno e l’altro dei punti d’incrocio. L’uomo-macchina di Lamettrie è insieme una riduzione materialistica dell’anima e una teoria generale dell’addestramento, e al loro centro regna la nozione di docilità, che congiunge al corpo analizzabile il corpo manipolabile”[1].

Il corpo descritto da Beckett, alle cui spalle agisce la filosofia cartesiana, è appunto il corpo-macchina che il biologo spiega e descrive come un complesso ingranaggio di carne, muscoli e nervi. Beckett “accantona l’esperienza diretta che noi abbiamo del nostro corpo come fenomenologicamente ci si rivela, per studiare un organismo i cui organi si possono benissimo pensare come a se stanti e anche di fatto separare, isolando le regioni dell’organismo fino a legittimare la domanda che si chiede se l’oggetto di questa ricerca sia ancora il corpo umano”[2]. Nello  stesso tempo, gli strani protagonisti de Le dépeupleur, chiusi nello spazio claustrofobico e geometrico di un cilindro di cinquanta metri di circonferenza e sedici di altezza, evocano l’idea di un’umanità intrappolata entro le maglie di un potere non riconducibile ad un unico centro d’irradiazione, ma piuttosto ad un’entità la cui natura funzionale si esprime attraverso una molteplicità e varietà di strategie che investono e assoggettano i corpi al fine di esercitare il controllo sulle diverse identità soggettive. In questo senso, il cilindro beckettiano può essere assunto quale “metafora (…) di tutte le situazioni limite, (…) che raccoglie (…) le diverse espressioni della diversità”[3], da sempre relegata in quei luoghi in cui i devianti, presi nelle loro varie tipologie, vengono isolati in nome della frattura non ricomponibile, tra senso e non -senso. Il cilindro dunque come esempio paradigmatico di quegli spazi che Foucault definisce eterotopici, cioè di quei “luoghi che appaiono delineati nell’istituzione stessa della società e che costituiscono una sorta di contro luoghi, specie di utopia effettivamente realizzate, nei quali luoghi reali, tutti gli altri luoghi reali (…) vengono al contempo rappresentati, contestati e sovvertiti. Una sorta di luoghi che si trovano al di fuori di ogni luogo, per quanto possano essere effettivamente localizzabili”[4], e nei quali “vengono collocati quegli individui il cui comportamento appare deviante in rapporto alla media e alle norme imposte. (…) Si tratta delle case di riposo, delle cliniche psichiatriche, e si tratta anche beninteso delle prigioni”[5].

La grande struttura immaginata da Beckett, internamente rivestita di gomma dura e dotata di

circa venti nicchie che gli internati cercano di raggiungere con delle scale a pioli, non è identificabile con nessun luogo specifico, ma la sua descrizione rimanda senz’altro al modello eterotopico del Panopticon ideato da Jerremy Bentham nel 1791[6] e pensato come applicabile all’architettura carceraria, nonché a quella di altre istituzioni sociali. “Il Panopticon -scrive Foucault- ha la peculiarità di racchiudere in sé potenzialità meravigliose: partendo dai desideri più diversi, concretizza effetti omogenei di potere”[7]. Sebbene privo di celle e di sorveglianti, il cilindro si fonda sullo stesso principio del Panopticon riguardo la distribuzione dei corpi nello spazio, entrambi elementi funzionali ai meccanismi di un potere diffuso e capillare. Come in tutte le architetture panoptiche, “l’opposizione tra istituzione e corpi assoggettati raggiunge la sua acme e (…) le manifestazioni vitali, organiche e psichiche di un individuo sembrano implodere in uno spazio esistenziale pienamente codificato”[8]. Il cilindro beckettiano non è dunque semplicemente un edificio di reclusione, ma un dispositivo architettonico del controllo e della sorveglianza, in cui ciò che conta è l’insieme dei meccanismi grazie ai quali il singolo scompare per lasciare il posto ad una massa anonima di individui separati e incapaci di relazioni. Quello che si cerca di creare è “il soggetto obbediente, l’individuo assoggettato a certe abitudini, regole, ordini. Un’autorità che si esercita continuamente intorno a lui e su di lui e che egli deve lasciar funzionare automaticamente in lui”[9]. Nel cilindro non ci sono sentenze o punizioni, pur tuttavia è possibile scorgere chiaramente gli effetti che sui corpi produce la presenza indiscreta di un potere. che è “dappertutto e sempre all’erta. Ma è anche discreto perché funziona in permanenza e in gran parte in silenzio, potere che in apparenza è tanto meno corporale quanto più è sapientemente fisico”[10].

L’azione assoggettante del potere si manifesta nel processo di oggettivazione dei circa duecento corpi-individui di entrambi i sessi e di tutte le età, che vivono reclusi nel cilindro e dei quali non conosciamo né l’identità, né il motivo del loro internamento. Di loro sappiamo soltanto che “vengono sorvegliati, addestrati, corretti (…) e controllati lungo tutta la loro esistenza”[11]. L’individuo al centro di questo testo beckettiano è un individuo che “non guarda dentro di sé dove non può esserci nessuno”[12], giacché del tutto identificabile con il corpo preso nella sua datità oggettuale, cioè come aggregato di organi e istinti contrapposti, da cui sono stati espunti l’identità, i desideri e la sessualità. Tutti i personaggi di Beckett, e non solo i protagonisti de Le dépeupler, sono condannati a pensare se stessi come cosa altra rispetto al corpo da cui sono posseduti e su cui non hanno alcuna presa. Le creature descritte in alcune prose degli anni sessanta, come ad esempio Imagination morte imaginez, Bing, All strange away, Sans[13], vivono divisi tra “due mondi, uno fisico e uno mentale, uno corporeo e uno spirituale, uno reale e uno possibile”[14]. La loro esistenza si esaurisce integralmente nel mondo dello spirito e il corpo, persa l’abituale posizione eretta, s’irrigidisce in atroci posture: corpi collocati schiena a schiena con lo sguardo rivolto alle spalle, corpi rannicchiati, corpi immobilizzati in posizione eretta. Una rotonda a base circolare, un parallelepipedo, una stanza semivuota, un rifugio senza uscita, sono gli spazi indefiniti e bianchi, i luoghi non luoghi in cui, distrutte le normali categorie temporo-spaziali, il mondo si contrae e implode in un universo indifferenziato. Se “il luogo antropologico – secondo la definizione di Mark Augé – “è simultaneamente principio di senso per coloro che l’abitano e principio di intelligibilità per colui che l’osserva”[15], gli spazi beckettiani si caratterizzano allora per essere dei nonluoghi perché, al contrario dei luoghi, non sono “identitari, relazionali e storici”[16]. Privati di una identità individuale e collettiva e della possibilità di costruire relazioni, i personaggi di queste prose brevi vivono da spettatori il fenomeno di un corpo estraneo, incapsulato nello spazio asettico e privo di punti di fuga in cui vegetano e dove il tempo si congela in un presente che sarà sempre e soltanto presente. Essi insomma esperiscono la realtà unicamente nella sua forma ridotta di realtà interna ed inaccessibile, equivalente al flusso di pensieri e immagini che attraversano un io irriducibile a qualunque apertura. Nel passaggio a Le dépeupleur, lo spazio del nonluogo acquisisce il nuovo carattere dell’eterotopia di deviazione, mentre il corpo, lungi dal vedere ricomposta la frattura tra il dato biologico e il dato psichico, finisce per assomigliare al suo contenitore, cioè ad un dispositivo panoptico totalmente chiuso all’esterno. Se in All strange away, Imagination morte imaginez, Bing, Sans, Beckett riconosce ancora valore di verità all’opposizione tra soggetto osservante, lo spirito, e oggetto osservato, il corpo, ne Le dépeupleur postula l’esistenza di esseri che “non sono se non meccanismi fatti a molla”[17] e dunque incapaci di intenzionare e costituire il mondo attraverso i sensi e la percezione. Siamo di fronte a quelli che lo stesso Beckett chiama corpi e mai soggetti, individui, o persone. “Questi corpi possono errare tra la folla senza vedere niente. Possono aspettare al piede delle scale e quando arriva il loro turno salire nelle nicchie oppure lasciare soltanto il suolo. Possono strisciare nelle gallerie andando a tastoni in cerca di niente”[18].

Ad agitarsi senza posa e senza scopo sono esseri che, incapaci di emergere dalla propria istintualità, sono resi soggetti dalla rete delle pratiche, dalla divisione dello spazio e dalla scansione temporale che regola la vita nel cilindro. Di fronte a loro, portatori indifferenti dell’esistenza, lo sguardo di Beckett diviene il lucido occhio dell’anatomo-patologo che indaga un mondo abitato da automi privi di qualunque “funzione percettiva e manipolativa nei confronti dell’ambiente”[19]. In questo vuoto emotivo, affettivo, intellettuale, i reclusi smettono di provare dolore, o meglio diventano la testimonianza di un dolore esclusivamente fisico. È vero che hanno un’anima e che quest’anima soffre molto, ma la sua sofferenza è prodotta da fattori esterni come ad esempio il clima, di cui per altro essa “risente sicuramente meno della pelle i cui sistemi di difesa dal sudore e la pelle d’oca vengono continuamente e senza eccezione contrastati. Tuttavia continua a difendersi male certo ma onorevolmente rispetto all’occhio che pur con tutta la buona volontà del mondo è difficile non condannare alla fine del suo sforzo ad una vera e propria cecità essendo anch’esso una specie di pelle ha più di un nemico. Il seccarsi dell’involucro cutaneo priva la nudità di buona parte del suo fascino rendendola grigia e trasforma in uno struscio d’ortiche la naturale succulenza di carne contro carne”[20].

Qui ad essere abolita è la stessa distinzione interno -esterno e l’anima, lungi dall’identificarsi con lo spazio psichico soggettivo, rimanda al dentro di un corpo che è, al pari del fuori, sottoposto ad una drammatica ed irreparabile metamorfosi sconfinante nel disfacimento. Questi esseri umani o ciò che resta di loro “si trovano al limite estremo di un’agonia della presenza, di una presenza morente”[21]. Non ancora morti, “ma ogni volta (…) sul punto di scomparire. (…) Diventare meno, sempre meno, senza mai scomparire”[22].

I personaggi beckettiani fanno l’esperienza della morte non come evento limite, come rottura definitiva della vita, ma come momento interminabile di una progressiva sclerosi psicologica e biologica inscritta nella carne stessa dei corpi. Nello spazio chiuso della prigione dalla quale non avrebbe alcun senso fuggire perché insensata è ogni azione umana, gli abitanti del cilindro si guardano morire senza mai morire del tutto. Non di rado, esplodono in eccessi d’ira e cominciano a colpirsi l’un l’altro con i pioli che staccano dalle scale con le quali cercano di raggiungere le nicchie. Si tratta solo di brevi istanti di caos perché l’ordine viene immediatamente ripristinato e gli internati riprendono a camminare secondo i modi stabiliti dal terribile ingranaggio nel quale sono intrappolati. Nell’irresistibile coazione a ripetere, i corpi subiscono l’estrema coartazione dell’espansione vitale, che sembra fuoriuscire dai suoi confini attraverso il canale dell’aggressività, e persino attraverso quello dell’eros. Infatti, è raro ma possibile che “per la legge della probabilità due coniugi si ricongiungano (…)senza rendersene conto. Ecco allora lo strano spettacolo di piaceri dolorosi e disperati che superano per durata e intensità quanto sanno fare in camera gli amanti più esperti. Tutti e tutte hanno infatti l’esatta coscienza della rarità di quella occasione e dell’improbabilità che si ripeta”[23].

Sottratto alla libera scelta dell’individuo e regredito a mero gesto meccanico, l’atto sessuale sembra essere l’estremo tentativo di un risveglio, il risveglio mal riuscito di un io che si ritrova, dopo il coito, nel “detestabile vuoto”[24] di sempre. Ancora una volta il corpo con le sue funzioni, i suoi istinti, i suoi piaceri, è investito dalla permanenza di uno sguardo incorporeo che indaga e penetra nella sfera che si vorrebbe intima e che invece è oggettivata nel segno di una graduale deumanizzazione. L’eros non attiva nemmeno quel piacere “che si accende per dover sfuggire a questo potere”[25], ma al contrario appare come ciò che, consentito dal potere stesso, è da questo orientato nella direzione di una totale e definitiva neutralizzazione delle emozioni. Determinando i modi in cui il corpo vive, si percepisce e gode, il cilindro priva i suoi abitanti dei vissuti emotivi ed esistenziali, riducendoli ad un insieme inespressivo di movimenti.

Questi “eterni chercheurs”[26] si servono del loro corpo esclusivamente come unità di misura con cui “misurare “incessantemente lo spazio che li circonda. (…) Misurare iterativamente, senza certezze, quello che apparirebbe come un luogo delimitato e certo, scoperchia una dimensione dello spazio in cui certezze e dubbi umani convivono cronologicamente nell’atto stesso dell’attraversamento”[27]. “Considerati dal punto di vista del movimento, i corpi sono di quattro tipi: in primo luogo, quelli che circolano senza sosta; in secondo luogo, quelli che ogni tanto si fermano; in terzo luogo, quelli che non abbandonano mai il posto conquistato a meno che ne vengano cacciati e che cacciati si gettano sul primo posto libero e s’immobilizzano nuovamente; in quarto luogo, quelli che non cercano o non cercatori seduti per lo più contro il muro nell’atteggiamento che strappò a Dante uno dei suoi rari pallidi sorrisi”[28]. Beckett ipotizza che la vita nel cilindro cesserà quando i cercatori diventeranno sedentari se non addirittura vinti, e i sedentari assumeranno la posa dei vinti. A quel punto resterà un unico cercatore che, dopo aver esplorato per l’ultima volta la vinta dai capelli rossi, presumibilmente ancora alla ricerca del suo spopolatore, s’immobilizzerà nella stessa posa degli altri. Allora, nel cilindro scenderà definitivamente l’oscurità e la temperatura si stabilizzerà sullo zero. “La posizione finale pertanto di tutti gli abitanti del perimetro sarà quella degli indolenti, vinti e racchiusi in sé, senza più cercare nulla o nessuno”[29], attenti soltanto “a spiare il colpo che li raddrizzerà per l’ultima volta e li stenderà per sempre”[30]. A dire il vero, poiché si tratta di una fine soltanto presunta, l’attesa, interrotta solo da periodiche tempeste fototermiche, potrebbe durare in eterno. In questi brevi momenti in cui tutti sembrano sospesi nell’aspettativa di un evento che si sa non accadrà mai, i corpi, bloccati dalla sorpresa e dal terrore, s’irrigidiscono in pose bizzarre, espressione” dell’impossibilità di afferrarsi e di spostarsi alla vista di questo abisso”[31]. Al termine delle “crisi”[32] che durano solo pochi istanti, i corpi, come se nulla fosse, riprendono l’incessante andirivieni, “né rinfrancati, né delusi”[33]. Essi non hanno nessuna consapevolezza dei loro stati interiori, e il terrore che li blocca va interpretato come l’oggettivazione somatica di fenomeni esterni. Questi organismi semplici, non relazionali e strutturati, la cui esistenza è un per sé completamente avulso dal reale, non possono che articolare i propri atti secondo un dispositivo meccanico, in forza del quale il loro “affollarsi e affaticarsi su e giù per le scale alla ricerca di una fantomatica uscita dalla caverna cilindro verso cielo e terra”[34], diventa la risposta inevitabile, dipendente da riflessi condizionati e consolidata dall’abitudine, ad un mondo regolato da leggi inderogabili.

Nonostante niente sembri impedire loro di attraversare l’intera area del cilindro, di fatto non possono appropriarsi in alcun modo dello spazio, poiché, essendo in nessuna vera relazione con l’ambiente e dovendo soggiacere ad una dimensione spaziale completamente codificata, si muovono secondo schemi predefiniti. Lungi dall’essere semplicemente un’operazione meccanica, il movimento è non solo l’espressione del soggetto di riferirsi a qualcosa nel mondo al di là di se stesso, ma è anche un modo di sentire il proprio corpo, la cui conoscenza avviene essenzialmente attraverso i sensi e le azioni. Poiché il cilindro è invece solo un contenitore di corpi vuoti che non parlano, che non desiderano e non domandano niente, che hanno perso definitivamente ogni contatto attivo e creativo con il mondo, indicazioni del tipo alto basso, sopra sotto, destra sinistra, davanti dietro, perdono il loro primario carattere di coordinate esistenziali e riorientano lo spazio in funzione del sistema interno di regole. Infatti, l’edificio è non solo organizzato secondo la logica dell’accessibilità sicché ogni individuo risulta sempre visibile da qualunque parte si trovi, ma è anche attraversato da un numero indefinito di traiettorie che articolano il perimetro secondo ” frontiere esatte ma invisibili all’occhio carnale e quindi mentale o immaginario”[35] e il cui attraversamento comporta l’infrazione di un severo codice di norme. “Ad esempio il trasporto delle scale non si fa in un modo qualsiasi ma sempre rasente il muro nel senso del mulinello. Si tratta di una norma severa quanto la proibizione di salire in più d’uno sulle scale per raggiungere le nicchie scavate nei muri. Niente di più naturale perché se con la scusa di fare la strada più breve fosse lecito attraversare la calca con la scala o seguire i muri in entrambi i sensi, la vita nel cilindro diventerebbe ben presto impossibile. (…) Si noti infine quanta attenzione facciano i cercatori dell’arena a non sconfinare nello spazio riservato agli scalatori”[36]. Diversamente dalle leggi codificate che si manifestano mediante l’evidenza dei loro divieti, queste “sanzioni normalizzatrici”[37] agiscono costantemente sugli individui e, in virtù della loro natura non immediatamente riconoscibile, sprigionano una formidabile “capacità di penetrazione pervasiva”[38] dei corpi. “In pratica, la legge è insieme del tutto manifesta e del tutto latente, perché non compare mai come esterna ai corpi che assoggetta e soggettivizza”[39]. Si tratta del processo di individuazione, che s’intreccia con “una serie di dispositivi tali da garantire al potere, con un ridottissimo dispendio di forze e di energie, il governo di tutto quello che avviene”[40]. La rigida disciplina a cui sono soggetti gli esseri del cilindro risponde al bisogno di organizzare i corpi, analogamente allo spazio, secondo organigrammi e planimetrie che risultano funzionali alla realizzazione di una circolazione quanto più possibile ordinata, nonché alla collocazione di ogni abitante nel posto a lui riservato. “Ad ogni individuo il suo posto e in ogni posto il suo individuo (…) Lo spazio disciplinare tende a dividersi in altrettante particelle quante sono i corpi o gli elementi da ripartire”[41]. Di qui, lo spazio del cilindro non può dirsi veramente esterno ai suoi abitanti, giacché, come in uno spietato gioco di specchi, i corpi carcere e il loro contenitore si confondono in un intreccio inquietante. Ora, La rappresentazione beckettiana del legame tra il corpo e lo spazio non va intesa in senso astratto, bensì come la messa in luce di quegli spazi d’indiscernibilità che, come ci ha insegnato Foucault, fanno parte del nostro quotidiano, nel quale si realizzano sistemi di assoggettamento e pratiche di dominio. “L’allegorico cilindro che tutti potrebbe contenerci”[42], inquieta perché mina “la sintassi, e non soltanto quella che costruisce le frasi, ma anche quella meno manifesta che fa tenere insieme, a fianco e di fronte le une alle altre, le parole e le cose”[43].

 


[1] M. FOUCAULT, Sorvegliare e punire. La nascita della prigione, Torino, Einaudi, 1993, p. 148.

[2] U. GALIMBERTI, Il corpo, Milano, Feltrinelli, 1987, p. 284.

[3] C. DOVOLICH, Singolare e molteplice. Michel Foucault e la questione del soggetto, Milano, Franco Angeli, 1999, p. 20.

[4] M. FOUCAULT, Eterotopia. Luoghi e non luoghi metropolitani, Milano, Mimesis, 2005, p. 14

[5] Ivi, p. 26.

[6] In realtà il vero ideatore del Panopticon non fu Bentham, ma suo fratello. Oggi parliamo del Panopticon come di un’idea di Bentham perché egli fu un grande sostenitore del progetto e perché fu lui a dargli il nome. Il Panopticon è un edificio a forma di anello diviso in tante piccole celle. Al centro c’è una torre nella quale si trova un sorvegliante, che può controllare i detenuti senza essere visto. In ognuna di queste piccole celle c’è, secondo lo scopo dell’istituzione, uno scolaro, un operaio, , un detenuto, un folle.

[7] FOUCAULT, Sorvegliare e punire, p. 220.

[8] N. SIGONA, Figli del ghetto, Nonluoghi Libere Edizioni, 2002, p. 10.

[9] FOUCAULT, Sorvegliare e punire, op. cit. p. 141.

[10] Ivi, p. 188.

[11] Ivi, p. 33.

[12] R. OLIVA (a cura di), Samuel Beckett. Senza e Lo spopolatore, Torino, Einaudi, 1989, p. 59.

[13] All strange away (1964): due personaggi, Emmo e Emma, sono collocati in una stanza bianca e semivuota senza ingresso né uscita. Imagination morte imaginez (1965): All’interno di una rotonda a base circolare completamente bianca, si trovano due corpi anch’essi bianchi, posizionati schiena a schiena con il viso rivolto alle proprie spalle. Questa posizione è ispirata al canto XX dell’Inferno dantesco (girone dei fraudolenti). Il solo movimento che riescono a compiere è l’apertura casuale dell’occhio sinistro, ma lo sguardo dei due non s’incontrano mai. Bing (1966): un essere con il corpo completamente bianco, immobile e in posizione eretta, vegeta dentro un parallelepipedo dalle pareti naturalmente bianche. Sans (1969): Un essere ridotto allo stato vegetativo è immerso in uno spazio arido occupato solo da alcune rovine.

[14] G. DELEUZE, L’esausto, Napoli, Cronopio, 2005, p. 45.

[15] M. AUGÉ, Nonluoghi. Introduzione ad una antropologia della surmodernità, Milano, Elèutera, 1993, p. 51.

[16] Ivi, p. 52.

[17] M. MERLEAU-PONTY, Fenomenologia della percezione, Milano, Il Saggiatore, 1965, p. 454.

[18] BECKETT, Lo spopolatore, p. 57.

[19] V. RUGGERI, L’identità in psicologia e teatro, Roma, Ma. Gi Edizioni, 2001, p. 99.

[20] BECKETT, Lo spopolatore, p. 82.

[21] A. SIMON, Dal teatro di scrittura alla scrittura di scena, in: Samuel Beckett, Teatro completo, Einaudi Gallimard, 1994, p. 750.

[22] Ivi, pp. 750-751.

[23] BECKETT, Lo spopolatore, p. 83.

[24] Ivi, p. 89.

[25] M. FOUCAULT, La volontà di sapere, Milano, Feltrinelli, 1978, p. 44.

[26] M. GUGLIELMI, M. PALA, Frontiere confini limiti, Roma, Armando editore, 2011, p. 10.

[27] Ibidem.

[28] BECKETT, Lo spopolatore, p. 89.

[29] Ivi, p. 82.

[30] G. DELEUZE, L’esausto, p. 17.

[31] L. BINSWANGER, Il caso di Suzanne Urban, Venezia, Marsilio, 1994, p. 94.

[32] BECKETT, Lo spopolatore, in: RENATO OLIVA (a cura di), L’immagine Senza. Lo spopolatore, Torino, Einaudi,

[33] Ibidem

[34] M. MARCHETTO, La direzione opposta. La caverna platonica e la cultura della crisi, in: J. Niemyer Fiendlay (a cura di), Il mito della caverna, Milano, Bompiani, 2003, p. 1086.

[35] BECKETT, Lo spopolatore, p. 53.

[36] Ivi, pp. 53-54.

[37] FOUCAULT, Sorvegliare e punire, p. 161.

[38] FOUCAULT, Microfisica del potere, Torino, Einaudi, 1977, p. 13.

[39] J. BUTLER, Scambi di genere. Identità, sesso e desiderio, Firenze, Sansoni, 2004, p. 189.

[40] FOUCAULT, Sorvegliare e punire, p. 171.

[41] Ivi, p. 155.

[42] GUGLIELMI-PALA, Frontiere confini limiti, p. 10.

[43] FOUCAULT, Le parole e le cose, Milano, Bur, 1998, pp. 7-8.

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