Adriano Pessina – Evoluzionismo e metafisica nella prospettiva di Bergson

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H. Bergson

 

 

H. Bergson

Adriano Pessina 
Evoluzionismo e metafisica nella prospettiva di Bergson
Alcune annotazioni 
 
Con un’opera il cui titolo rasenta l’ossimoro, evoluzione creatrice, Henri Bergson affronta, con indubbia originalità, una delle questioni più complesse e più controverse dell’epoca contemporanea, quella dell’evoluzionismo. Quest’opera, pubblicata, non dimentichiamolo, nel 1907 (e messa all’Indice nel 1914) ha conosciuto una notevole notorietà prima di cadere nell’oblio, sommersa da critiche e da accuse non sempre pertinenti e generose. Eppure continua ad essere, a  parere dello scrivente, una delle più rilevanti occasioni di riflessione che ci abbia consegnato il pensiero filosofico contemporaneo[1]. Da una parte, infatti, essa ci permette di comprendere alcune aporie presenti nella concreta formulazione della teoria evoluzionista di Darwin, segnata dal problema di mostrare quali siano i meccanismi che permettono il passaggio tra le specie, dall’altra, ci pone di fronte alla necessità di verificare il significato preciso che possiamo dare al concetto di evoluzione e quindi di mutamento, aprendo di nuovo il problema della connessione tra le forme dell’intelligenza geometrica e quella dell’intelligenza teoretica. Il tema della vita diventa l’occasione per riaprire la questione del nesso tra le diverse modalità del sapere ed in particolare per stabilire un nesso tra scienza e metafisica.  Se oggi, come allora, appaiono deboli e molto discutibili le linee proposte per rimediare, attraverso il modello della coscienza e delle sue dinamiche, alle insufficienze teoriche del modello classico dell’evoluzionismo e del finalismo, le parti critiche mantengono, per così dire, una loro vitalità. Ma prima di dire qualcosa sull’Evoluzione creatrice (che porta con sé molti di quei risultati teorici che Bergson ritiene di aver guadagnato con Il saggio sui dati immediati della coscienza e con Materia e memoria) occorre almeno ricordare quale sia l’idea di filosofia che Bergson sta promuovendo attraverso un serrato e competente confronto con le teorie più innovative di quell’epoca.

Bergson è convinto che il punto di partenza della filosofia, pensata come sapere e non soltanto come visione del mondo e delle cose  è, e deve essere, l’esperienza: per questo motivo egli non ritiene estranea alla riflessione filosofica la scienza empirica, con la quale coltiva (in ognuna delle sue opere) un rapporto costante, pur allontanandosi da qualsiasi deriva positivistica. L’esperienza descritta dalla mediazione scientifica, sia quella psicologica, sia quella fisica o biologica, non esaurisce l’orizzonte dell’esperienza umana prescientifica, o a-scientifica, ma anzi, in qualche modo la presuppone sempre e ad essa vi rimanda allorché le domande sull’esperienza sollevate dalle stesse scienze si fanno più radicali. Il tema della vita, non soltanto della vita umana, è un tema particolare: facendo della vita e della natura un oggetto di studio e di conoscenza, l’uomo sembra, per così dire, congedarsi dalla natura e dalla vita stessa attraverso un trascendimento teorico e pratico che mette alla prova la consistenza delle categorie stesse con le quali pensa sia la vita sia la natura.

Soltanto se si trascende l’idea che l’uomo sia un puro prodotto della natura e della sua evoluzione è possibile giustificare il fatto che di questa natura, della vita stessa, si può avere una conoscenza teoretica e non soltanto un approccio pratico e una comprensione schematica (che potrebbero essere ancora pensati come funzioni della vita e delle sue forme). In fondo, la teoria sull’evoluzione può aprire di per sé le condizioni di possibilità per un trascendimento teoretico dell’evoluzione stessa, a testimonianza che al fondo dell’evoluzione non ci può essere semplicemente la materia e le sue forme, il caso e la necessità. Intelligenza e intuizione sono due forme della diversa realtà che possiamo individuare sotto la nozione analoga di vita.

Non si comprenderà mai, a nostro avviso, la teoria dell’intuizione di Bergson e la sua pretesa di giungere ai dati immediati della coscienza se non si terrà presente questa impostazione: l’immediato non si dà se non passando attraverso la revisione di quelle mediazioni intellettuali che costituiscono l’approccio naturalistico proprio dell’intelligenza umana, che è funzionale più all’azione che al pensiero teoretico, più adatta alla prassi che alla filosofia. Solo superando questa funzionalità implicita nell’intelligenza umana e recuperando quella dimensione teoretica che sta sullo sfondo dell’intelligenza stessa si potrà, secondo Bergson, promuovere l’impresa filosofica e cercare di individuare ciò che potremmo definire, con nozione non bergsoniana, l’essenza  di quelle zone di realtà di volta in volta indagate dalle scienze e si potrà approdare, per approssimazione, all’idea di uno slancio vitale che prefigura l’azione di Dio nella realtà.

L’uso di metafore e la necessità di dar forma ad alcune torsioni linguistiche del linguaggio ordinario (si pensi alla nozione di durata) serve a Bergson per esprimere quello che si palesa nella forma dell’intuizione teoretica e che trova difficoltà ad essere detto all’interno dello schema di un’intelligenza pragmatica e non teoretica.

Anche la questione metafisica, cioè la questione dell’esistenza di Dio e dei suoi caratteri, in Bergson è affrontata, non senza aporie, attraverso il ricorso a due linee dell’esperienza umana: quella che riguarda la conoscenza della vita espressa nelle teorie della scienza biologica (L’ évolution créatrice) e quella che riguarda l’esperienza religiosa, nella sua peculiare dimensione mistica (Les deux sources de la morale et de la religion).

Queste note intendono mettere in luce, in termini estremamente sintetici, alcune mosse teoriche attuate da Bergson nella discussione dell’evoluzionismo, sia come teoria filosofica (H. Spencer), sia nella sua versione scientifica (Ch. Darwin).

Poiché la filosofia di Bergson, per quanto sia stata sottoposta anche a non pochi fraintendimenti, è nota, mi limiterò ad evidenziare quelle che mi sembrano costituire, metodologicamente e contenutisticamente, le sollecitazioni più interessanti per il contesto dei nostri lavori.

In questa occasione intendo presentare 4  punti alla discussione:

  1. La tesi per cui la filosofia non abbia un ruolo marginale rispetto al sapere scientifico e che non debba occuparsi di un presunto residuo di conoscenze non affrontato dalle scienze, ma sappia, invece, approfondire e sviluppare in modo fecondo le implicazioni teoretiche delle dottrine scientifiche.

Esiste un’indubbia difficoltà nel discutere oggi di evoluzionismo: questa difficoltà sorge anche dal fatto che la filosofia si presenta, per larga parte del suo percorso attuale, come costitutivamente estranea al discorso e alla metodologia scientifica e, quindi, rischia di proporre le proprie affermazioni come tesi che risultano puramente accessorie alle imponenti forme del sapere scientifico. La filosofia, allo sguardo di molti uomini di scienza, appare come un insieme di convincimenti a cui si può più o meno credere, ma che non avrebbe propriamente nulla a che fare con il sapere scientifico, considerato come il sapere per antonomasia.

Il rischio di chiudere la filosofia nella questione del senso, pensato e proposto come qualcosa che non ha bisogno di fare i conti con i dati delle scienze sperimentali, deriva dall’idea che la filosofia non possa più costituirsi come sapere e non debba continuamente rifare i conti con le proprie condizioni di possibilità. Questa autolimitazione (kantiana ad honorem) è rifiutata esplicitamente da Bergson quando scrive: « La ragione, se si limita a ragionare sulle proprie possibilità, non riuscirà mai ad ampliarle, sebbene tale ampliamento, una volto compiuto, non sembri affatto irragionevole».[2]

La filosofia contemporanea, molto più di quella d’inizio secolo scorso, celebra facilmente una propria marginale autoreferenzialità estraniandosi dal contesto del sapere empirico, oggi peraltro più difficilmente dominabile a motivo della mediazione tecnologica e dell’estensione delle sue conclusioni. Perciò risulta oggi più che mai pertinente la seguente osservazione di Bergson: «Avendo sin dall’inizio rinunciato a intervenire nelle questioni di fatto, il filosofo si trova ridotto, in merito alle questioni di principio, alla pura e semplice formulazione in termini più precisi della metafisica e della critica inconsapevoli, e dunque inconsistenti, che si producono dall’atteggiamento stesso della scienza di fronte alla realtà….chi ha cominciato a riservare alla filosofia le questioni di principio, chi ha voluto con ciò collocare la filosofia al di sopra delle scienze come una Corte di Cassazione sta al di sopra delle Corte di Assise e di Appello, sarà progressivamente indotto a ridurla alla semplice funzione di una Corte di Registrazione, incaricata tutt’al più di formulare in termini più precisi le sentenze già irrevocabilmente pronunciate».[3] Ma la relazione tra filosofia e scienza è, secondo Bergson possibile, perché la scienza è “opera di pura intelligenza”, cioè di una prospettiva, nel linguaggio bergsoniano, pratico, mentre la filosofia è opera di intuizione, cioè capacità di visione speculativa, frutto della liberazione dagli schemi dell’intelligenza stessa: queste due forme del conoscere sono proprie dell’uomo e della sua particolare condizione di vivente. Da un certo punto di vista, quindi, c’è continuità tra scienza e filosofia perché c’è continuità tra intelligenza e intuizione, ma questa continuità non va interpretata nel senso della successione, bensì nel senso della prossimità, in quanto nell’una è implicita l’altra, e reciprocamente si condizionano. Questa unità è, per così, dire, esito della stessa dinamica della vita: l’uomo in quanto vivente e pensante porta con sé tanto l’intelligenza quanto l’intuizione. Intelligenza e intuizione, scienza e filosofia, allora, non sono estrinseche, ma rappresentano prospettive diverse sulla medesima realtà, di cui entrambe parlano. Il compito della filosofia, scrive Bergson, «consiste nello speculare, ossia nel vedere; il suo atteggiamento nei confronti del vivente non dovrebbe essere quello della scienza, che mira soltanto all’azione e che, potendo agire solo attraverso la materia inerte, tende a considerare tutta la realtà sotto questo unico aspetto. Cosa accadrà, dunque, se la filosofia consegna totalmente alla scienza positiva i fatti biologici e psicologici così come è accaduto, a buon diritto, con i fatti fisici? Accadrà che dovrà accettare a priori  una concezione meccanicistica della natura nel suo insieme, una concezione irriflessa e persino inconsapevole, derivata dal bisogno materiale. Dovrà accettare a priori la dottrina della semplice unità della conoscenza e dell’unità astratta della natura. A questo punto la filosofia arriva al capolinea. Al filosofo non resta che scegliere tra un dogmatismo e uno scetticismo metafisici, che alla fin fine sul medesimo postulato e che non aggiungono niente alla scienza positiva»[4].

Bergson ritiene che alla fine la filosofia paghi un pesante tributo alla delega data alle scienze sperimentali delle questioni di fatto: un tributo che la estranea dall’esperienza e che la conduce, inevitabilmente, ad accettare la metafisica implicita nella ricostruzione scientifica dell’evoluzione della vita e a non cogliere come, in questa stessa metafisica elementare, ci siano elementi che impediscono alla stessa scienza di dare un contributo effettivo alla complessa dinamica della vita. Così, scrive ancora Bergson: «A un dogmatismo metafisico che erigerebbe ad assoluto la fittizia unità della scienza, seguiranno ora uno scetticismo o un relativismo che universalizzeranno ed estenderanno a tutti i risultati della scienza il carattere artificioso di alcuni di essi. E così la filosofia oscillerà oramai tra la dottrina che ritiene la realtà assoluta come inconoscibile, e quella che, nel darci un’idea di questa realtà, non aggiunge niente a quanto aveva già detto la scienza. Nel tentativo di evitare qualsiasi conflitto tra la scienza e la filosofia, quest’ultima verrà così sacrificata senza che la scienza ci guadagni granché»[5].

La proposta di Bergson è, in fondo, quella di spezzare alcuni confini artificiali e di reimmergere la riflessione, sia essa scientifica o filosofica, nella realtà. Un’immersione nelle pieghe dell’esperienza che va al di là del progetto fenomenologico e che, nello tempo, rifiuta l’ingenua proposta positivistica di una filosofia come residuo del sapere scientifico. Scrive Bergson: «La filosofia invade così l’ambito dell’esperienza, immischiandosi in cose che sino a ora non la riguardavano. Scienza, teoria della conoscenza e metafisica finiscono per ritrovarsi sullo stesso terreno e, sulle prime, ne risulterà una certa confusione; all’inizio tutte e tre crederanno di aver perduto qualcosa, ma alla fine tutte e tre avranno trovato vantaggio da questo incontro»[6].

In Bergson rivive, ci sembra, l’ideale di un sapere articolato che è in grado di non mettere tra parentesi le conclusioni della scienza empirica, ma che sa anche distinguere ciò che essa ci consegna in termini di nuova estensione del senso dell’esperienza conoscitiva ed operativa da ciò che appartiene al modello teorico che le ha permesso determinate conclusioni. Lo schema meccanicistico, che funziona nel sapere scientifico, non sempre rende ragione adeguatamente degli elementi vitali che da tale modello emergono.

2 La valorizzazione del nesso intrinseco tra gnoseologia e biologia, condizione per una riflessione che ricolleghi ontologia e metafisica.

L’inizio dell’Evoluzione creatrice pone in evidenza come non si possa esercitare la ragione senza riflettere sulla funzione che essa svolge nella dinamica della vita umana: il nesso tra vita e conoscenza non è estrinseco se l’uomo è un vivente pensante e se la condizione umana può realmente essere rappresentata all’interno di un trascendimento di questa stessa funzione in vista di una riflessione che ne legga i limiti. Scrive Bergson: «Ciò significa che la teoria della conoscenza e la teoria della vita ci sembrano da loro inseparabili. Una teoria della vita che non si accompagni a una critica della conoscenza è costretta ad accettare, tali e quali, i concetti che l’intelletto mette a sua disposizione: volente o nolente, essa non può altro che racchiudere i fatti entro schemi precostituiti e ritenuti definitivi, ottenendo così un comodo simbolismo, forse anche necessario alla scienza positiva, ma non una visione diretta del suo oggetto. D’altra parte, una teoria della conoscenza che non collochi l’intelligenza all’interno dell’evoluzione generale della vita non ci insegnerà né come si siano costituiti di gli schemi della conoscenza, nè in che maniera possiamo ampliarli o superarli. È necessario che questi due ambiti di ricerca, la teoria della conoscenza e la teoria della vita, si ricongiungano e, attraverso un processo circolare, si sollecitino reciprocamente e indefinitamente»[7].

Bergson ritiene di poter chiarire alcune strutture della conoscenza scientifica collocandola dentro la vita che essa pensa di poter spiegare. Se si colloca la funzione dell’intelligenza umana all’interno dell’evoluzione della vita, si potrà capire, secondo Bergson, perché meccanicismo e finalismo sono, in fondo, schemi analoghi, sebbene opposti, e perché entrambi non riescano a dar ragione del fatto che l’uomo, prodotto della vita, è in grado di trascendere ciò che descrive come causa del suo stesso esistere e pensare. Si tratta di ritrovare e di ridire dell’intelligibilità del reale, ma al di là di meccanicismo e di finalismo. Detto altrimenti, Bergson coglie, con chiarezza, il limite di una filosofia della vita che resti intrappolata nelle esigenze statiche del vivente che vuole avere una presa sulla realtà e perciò tende sempre a rappresentarsela come qualcosa di fatto, di compiuto, perdendo di vista proprio quel farsi che è sempre segno del vivere.

In questo senso, la mossa teorica più rilevante operata da Bergson è quella di aver proposto un’idea di evoluzione non lineare e di averlo fatto attraverso la critica delle insufficienze pratiche e teoriche sia dell’evoluzionismo darwiniano, sia del finalismo metafisico. Questa mossa teorica, inoltre, gli permette di accedere ad un’idea dell’uomo che appare, per certi versi, tanto classica quanto innovativa, perché costruita dentro i dati della scienza stessa.

« Il movimento evolutivo sarebbe cosa semplice, e non ci vorrebbe molto a determinarne la direzione, se la vita descrivesse una traiettoria unica, paragonabile a quella di una palla sparata da un cannone. Ma qui abbiamo a che fare con una granata, che è subito esplosa in frammenti, i quali, essendo anch’essi esplosivi, sono a loro volta scoppiati in altri frammenti destinati ad esplodere ancora, e così via per moltissimo temo. Noi percepiamo solo ciò che ci più vicino, i sommovimenti disseminati di piccolissime esplosioni. Ed è da qui che dobbiamo partire, per risalire, gradi dopo grado, fino al movimento originario»[8].

3 Le differenze di natura e la lettura delle linee dell’evoluzione come nuova interpretazione della peculiarità dell’esistenza umana.

Come è noto, Bergson, già a partire dal primo capitolo de L’evoluzione creatrice, si è sforzato di mostrare le differenze di natura esistenti tra organico e inorganico e di continuare a riflettere su questa linea per proporre una differenza di natura tra istinto e intelligenza, per poi giungere a vedere nella durata della vita, e nelle differenziazioni delle sue linee, l’origine dell’uomo stesso. Non più, quindi, un’evoluzione unitaria e progressiva, ma diverse linee di un unico slancio vitale. Di particolate interesse è perciò la seguente osservazione, che merita di essere presa in considerazione: «L’errore fondamentale, che tramandatosi da Aristotele in poi ha viziato la maggior parte delle filosofie della natura, consiste nel vedere nella vita vegetativa, nella vita istintiva e nella vita razionale tre gradi successivi dello sviluppo di una sola e medesima tendenza, mentre di tratta di tre direzioni divergenti di un’attività che, crescendo, si è suddivisa. La differenza tra queste direzioni non è di intensità, né più in generale di grado, ma di natura»[9].

In questo senso non si può propriamente dire che l’uomo è il vertice dell’evoluzione, perché l’evoluzione non ha una linea unitaria e il regno vegetale, il regno animale e quello umano sono linee divergenti, anche se, essendo frutto di un’unica origine, presentano in loro stessi molti caratteri simili, quegli stessi caratteri che hanno fatto ipotizzare l’unicità della linea evolutiva. Una simile tesi, oggi, che cosa può dire e in che modo può confrontarsi con le ipotesi evolutive abbracciate dai modelli scientifici che fanno capo alla microbiologia e al linguaggio delle trascrizioni del Dna, cioè ai modelli che usano della nozione di informazione e di codice per unificare, ancora una volta, dentro un nuovo macro-schema, il movimento della vita, nelle sue molteplici forme?

4 La fecondità dell’evoluzionismo come modalità per riscoprire un’immagine di Dio che pervade la realtà, ma non si esaurisce nella realtà conosciuta.

Il testo di Bergson si presenta anche come occasione per cercare di comprendere in che modo oggi si possa presentare la discussione sull’evoluzionismo scientifico accedendo ad un riferimento alla nozione di creazione che non risenta degli stessi limiti e delle stesse aporie che Bergson ha evidenziato all’interno di meccanicismo e finalismo. Bergson ha cercato di ritrovare la creazione nell’evoluzione ridando, per così dire, movimento al divenire che viene continuamente fissato nella ricostruzione statica del pensiero geometrico. «Tutto è oscuro nell’idea di creazione se si pensa alle cose che verrebbero create e a una cosa che crea, come accade abitualmente, come l’intelletto non può impedirsi di fare. (…) Dio, definito così non ha niente di compiuto. È vita incessante, azione, libertà. La creazione così concepita non è un mistero, ma la sperimentiamo all’interno di noi stessi quando agiamo liberamente. È senz’altro assurdo che cose nuove possano aggiungersi a cose che già esistono, perché la cosa è il risultato di una sua solidificazione operata dal nostro intelletto, e che le uniche cose che esistono sono quelle costituite dall’intelletto. (…) In realtà, la vita è un movimento, la materialità il movimento inverso, e ciascuno di questi movimenti è semplice»[10].

Soprattutto Bergson ha cercato di mostrare come lo spirito si manifesti dentro l’uomo nella sua concreta materialità e che è proprio questo spirito ad essere la fonte di una nuova creazione, che sono anche la scienza e la tecnica, nuovi strumenti capaci di fare cose nuove.

Certo, Bergson ha commesso, a nostro avviso, l’errore di introdurre troppe metafore per cercare di superare lo schematismo della ragione e farci percepire, con un linguaggio che voleva essere fluido, come il movimento dovesse essere considerato fuori da quella commistione tra spazio e tempo che, alla fine, si risolve sempre nel primato del geometrico (pensiamo al fatto che siamo costretti dalla ragione a parlare della linea dell’evoluzione). Ma ha perfettamente ragione quando invita il filosofo a pensare allo spirito dentro il concreto dell’esperienza corporea e a non cercare ciò che eccede la materia fuori dalla materia, come un’altra cosa che si aggiunge, ma resta pur sempre estranea ad essa. L’evoluzione della vita è in fondo la dinamica della vita, così come noi la sperimentiamo nella dinamica della coscienza e dell’intuizione: questa vita dello spirito risulta più adeguata a rappresentare le forme della vita di qualsiasi modello meccanicistico e causale. Bergson apre la questione metafisica, cioè della Trascendenza del Creatore, dentro la dinamica della vita, cioè nell’immanenza dell’esperienza evolutiva: la vita, nelle pagine di Bergson, si dice in molti modi ed è per questo che è possibile trovare un nesso tra scienza dell’evoluzione e metafisica della creazione senza dover rinunciare né alla scienza né alla filosofia.

In conclusione, se possiamo esprimerci in modo sintetico, Bergson ha compreso che la vita porta con sé quella dimensione di novità e di imprevedibilità che è emersa all’interno di un’esperienza religiosa come quella ebraica prima, e cristiana, poi, dove il Dio vivente non è mai estraneo alla storia. Se l’evoluzione è creatrice, come la vita, e se questa espressione, lungi dal rappresentare una ricaduta panteistica, ci riconduce alla consapevolezza che la presenza dell’uomo è il segno di questa continua novità nella storia, allora possiamo meglio comprendere le responsabilità alle quali siamo consegnati oggi, nell’epoca delle biotecnologie e delle possibili manipolazioni e trasformazioni delle diverse forme del vivere. Che cosa fare della vita dipende non soltanto dal potere che noi abbiamo su di essa, ma dal valore che ad essa sappiamo riconoscere, cioè dalla capacità che abbiamo di pensarla.

Molti anni dopo, ne Le due fonti della morale e della religione Bergson tornerà su questa idea e metterà di fronte all’uomo due differenti strade per portare, per così dire, a compimento la sua vocazione ad essere creatore: la tecnica, con le sue frenesie e le sue indefinite possibilità, e la mistica, come opera con la quale trovare una nuova perfezione umana dentro una relazione costitutiva con quel Dio che è all’origine dell’evoluzione stessa. Se la natura dell’uomo può essere letta soltanto nella partecipazione a questo progetto creatore della vita, allora si capisce perché Bergson ha definito l’universo una macchina per fare degli dei. Lo slancio vitale che pervade la vita e le sue forme si apre, con l’uomo, a due possibilità, a due forme di compimento. In un’epoca, come la nostra, che ama definirsi post-metafisica, è difficile pensare che si possano trovare dei criteri per poter orientare il nuovo potere dell’uomo nei confronti della vita senza fare i conti con la metafisica, senza, cioè, interrogarsi circa il significato stesso di questo potere affidatogli da uno slancio vitale che non è comprensibile senza Dio. Non dimentichiamo che le due fonti di cui parlerà Bergson nel suo ultimo libro sono la vita come fenomeno empirico e la Vita come Dio. Vitalismo e metafisica della Trascendenza, sono, in ultimo, i due orizzonti entro cui comprendere le dinamiche dell’esistere. I testi di Bergson ci danno ancora da pensare perché ci inducono a fare i conti con le nostre forme del conoscere e del fare, facendoci percepire, al di là degli schemi della ragione, il fascino di una novità che è possibile nella vita quando essa è riscoperta nella sua inesauribile Fonte.

 

Testo pro-manuscripto, redatto per un convegno del 2007 organizzato dal Dipartimento di Filosofia dell’Università Cattolica -pubblicato il 3 ottobre 2010


[1] Debbo precisare che le osservazioni che farò non rendono ragione della ricchezza di elementi presenti nell’Evoluzione creatrice, opera di sintesi che unisce, come spesso avviene nei lavori di Bergson, tematiche gnoseologiche, osservazioni metodologiche e questioni squisitamente metafisiche. Questa comunicazione si limita a suggerire alcuni spunti. [2] H. Bergson, L’evoluzione creatrice, trad. it. Cortina Editore, Milano 2002, p.161. [3] Idem, p. 162. [4] Idem, p. 163. [5]Idem, p.164.

[6] Idem, p. 164.

[7] Idem, p.4.

[8] Idem, p. 85.

[9]  Idem, p. 114.

[10] Idem , p. 204 e p. 205.

H. Bergson

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