Stefano Semplici – I cattolici devono tornare alla politica. Per fare cosa?

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Apostolicam actuositatem

Alcuni giorni fa, in un articolo pubblicato sul «Corriere della sera», Giuseppe De Rita ha sottolineato l’esigenza di ricostruire all’interno del «popolo cattolico» i «livelli intermedi prima di condensazione della propria forza poi di finalizzazione allo sviluppo collettivo del paese». Ogni appello ad una generazione nuova di politici cattolici o all’esigenza di restituire a quel popolo il peso che gli spetterebbe per la qualità e pervasività della sua presenza nel quotidiano del sociale e della testimonianza di fede  appare destinato in caso contrario ad alimentare il rumore di fondo delle «chiacchiere inutili e confuse». Francesco D’Agostino ha prontamente messo in guardia dalle pagine di «Avvenire» dal rischio della declinazione di questo invito nel senso di un ulteriore allargamento delle crepe aperte dal secolarismo e da una malintesa laicità: occorrono «mediazioni alte» proprio per evitare che diventi il fondamentalismo l’alternativa alla deformazione culturale e metodologica che fa della doverosa distanza fra identità religiosa e spirituale e responsabilità civile una inaccettabile separazione. La prima impressione, leggendo questi testi, potrebbe essere quella di un vocabolario e di preoccupazioni già sperimentati, se non addirittura della riproposizione dell’antica frattura fra i cattolici della mediazione (fra i quali sono cresciuto) e quelli della presenza. La mia tesi è invece che a monte della riflessione, certamente opportuna, sulla linea di confine fra una buona (alta) mediazione e la sua versione annacquata, nella quale principi e identità cederebbero allo spirito del tempo il loro spessore di immutabile verità, vi sia una questione che è il vero nodo sul quale questi ed altri interventi ci sollecitano a riflettere. Diamo per scontato che il bisogno di una presenza, di un ruolo più incisivi dei cattolici nella vita politica sia orientato al “bene comune” e non a puntellare il potere e i poteri della Chiesa. Diventa di conseguenza inevitabile interrogarsi sulle priorità di un’agenda che renda quella presenza e quel ruolo riconoscibili, preziosi, fulcro di inclusione e condivisione. Da qui occorre ripartire, perché è qui che nascono i problemi.

L’effetto più rilevante della fine della Democrazia cristiana non è stato la piena legittimazione del pluralismo delle opzioni politiche, ma un sostanziale arretramento dalla linea conciliare riassunta nella Apostolicam actuositatem, cioè dal riconoscimento dell’instaurazione dell’ordine temporale e dell’impegno ad «operare direttamente e in modo concreto» in esso come «compito proprio» dei laici. Ad operare direttamente, a mediare con la politica più o meno alti accordi e compromessi sembra essere sempre più spesso la gerarchia, che si tratti delle leggi a tutela di valori e principi o della difesa di ben più concreti interessi materiali. È inutile domandarsi se venga prima la timidezza e insufficienza del laicato o la paura dell’episcopato di perdere il controllo della situazione. Il fatto è che la voce dei cattolici coincide anche nella vita pubblica con quella dei Vescovi e dei Cardinali. La stessa vita delle parrocchie e i contenuti della formazione cristiana – come ha ben colto De Rita – si sono pienamente omologati a questa scelta di fondo e il dovere della Chiesa di non essere semplicemente una “parte” ha finito col produrre esattamente i sacerdoti e i laici che D’Agostino non vorrebbe: il luogo fondamentale della pratica della fede resta per molti la camera da letto, con il contorno del culto di precetto e, almeno per i giovani, della convivialità degli oratori e dei campeggi estivi; ci si ferma nella migliore delle ipotesi alla frontiera sociale della solidarietà e non si viene educati, incoraggiati ad affrontare come cattolici e cattolici liberi e responsabili l’impegno direttamente politico. Il risultato è paradossale. Non è vero che la Chiesa nella sua espressione gerarchica punta ad invadere arbitrariamente gli spazi della politica o addirittura coltiva nostalgie teocratiche. Fa semplicemente il suo mestiere, che è quello di difendere e promuovere il precipitato etico-antropologico dell’esperienza di fede. In questa esperienza, tuttavia, l’accento batte – in modo decisamente sbilanciato, sebbene ovviamente non esclusivo – su temi che, mentre sovraespongono la gerarchia nel circuito mediatico, anche perché più direttamente legati alla sua responsabilità magisteriale, generano facilmente l’equivoco per il quale i cattolici non sarebbero e non si sentirebbero coinvolti in modo altrettanto essenziale nelle questioni essenzialmente politiche delle faglie di ingiustizia della modernità e della post-modernità, delle contraddizioni dell’economia, dei lati oscuri della globalizzazione. Aprendo fra l’altro vere e proprie praterie alle pratiche strumentali e all’ipocrisia di chi può così puntare ad accreditarsi come Defensor fidei pagando semplicemente il prezzo del consenso alla “biopolitica” della Chiesa.

La citatissima Nota dottrinale circa alcune questioni riguardanti l’impegno e il comportamento dei cattolici nella vita politica, firmata nel 2002 dal Cardinale Ratzinger come Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede, è stata troppo a lungo dimezzata. In quel testo le «esigenze etiche fondamentali e irrinunciabili» nelle quali è in gioco per i credenti «l’essenza dell’ordine morale» includevano il rifiuto dell’aborto e dell’eutanasia, la promozione della famiglia, il rispetto della libertà di educazione, ma anche, alla stessa stregua, la tutela dei minori e la liberazione delle vittime delle moderne forme di schiavitù e, a seguire, il diritto alla libertà religiosa e lo sviluppo di un’economia al servizio della persona e del bene comune, fino al grande tema della pace. Il bisturi affilato dei principi non negoziabili ha ritagliato in questo orizzonte di un impegno necessariamente a tutto campo le nicchie sempre più strette di controversie delle quali non è sempre facile argomentare la centralità e il significato epocale per il futuro del nostro paese e, più in generale, delle democrazie liberali. Sono irrinunciabili i tubicini dell’alimentazione forzata dei pazienti in stato vegetativo, ma la voce della Chiesa è così bassa da essere a stento udibile quando il mantra del federalismo rischia di tradursi nel federalismo del diritto all’assistenza sanitaria e dunque, in ultima analisi, nel federalismo del diritto alla vita. Dall’esposizione del crocifisso nelle aule scolastiche sembra dipendere l’educazione dei nostri giovani, ma poco o nulla ci si cura delle indagini internazionali che ci collocano impietosamente in fondo a tutte le graduatorie di qualità ed efficienza del sistema formativo. Si scende in piazza per fermare i Dico, ma si rimane a casa quando è sempre la nuda evidenza dei numeri a sottolineare che, mentre per la famiglia noi spendiamo la metà della laicissima Francia, ai padri e alle madri che diventano poveri solo perché si sono permessi il lusso di mettere al mondo dei figli i cattolici italiani non sanno offrire altro che qualche periodico appello al quoziente familiare. E l’elenco dei segnali di una visione politica sempre più ristretta potrebbe facilmente allungarsi. Nel libro del Siracide leggiamo, senza se e senza ma, che Dio ci chiede di «non respingere la supplica di un povero», ma non appare chiaro se nei respingimenti dei clandestini sia o no in gioco qualcosa di «fondamentale e irrinunciabile» per il cristiano.

Non ci sono soluzioni facili per problemi di questa portata. Ma appunto per questo è qui che c’è bisogno di «mediazioni alte». Il Papa le ha sollecitate con la Caritas in veritate. E parlando l’8 settembre ad una cinquantina di membri del Consiglio d’Europa ha ribadito che la validità universale dei diritti che devono fare da argine all’onda lunga del relativismo passa per gli immigrati, i profughi, coloro che pagano il prezzo più alto per la crisi economica e finanziaria, le vittime dell’estremismo e delle guerre, tutti coloro che vivono in democrazie fragili. La biopolitica può diventare l’alibi di una politica rattrappita e, se questo è vero, dobbiamo concludere che il contributo dei cattolici del quale si sente la mancanza non è soltanto e forse neppure principalmente il contributo alle polemiche su testamenti biologici, simboli religiosi o coppie omosessuali, ma quello alla soluzione dei nodi nei quali tutti riconoscono essere in gioco la dignità dell’essere umano e la giustizia delle istituzioni. Ne va del bene comune, appunto. Di quel bene che non possiamo più pensare alla maniera della Chiesa dell’Ottocento, che neppure chi pagherà di persona per aver denunciato le sue piaghe pensava si potesse mettere in questione. Rosmini, nella sua Filosofia della politica, si scaglia contro l’idea che il bene comune si possa frazionare e, di conseguenza, contro il pluralismo dei partiti: «Sia che sorgano da interessi particolari o da opinioni fortemente sostenute da gruppi o da passioni popolari la loro origine è al di fuori del campo della pura e serena ragione, legata a passioni umane e perciò negativa e tenebrosa». La ragione può fare molto per allentare i conflitti degli interessi e la differenza delle opinioni, ma non può fare tutto. I cattolici lo sanno bene, come sanno che l’esperienza religiosa, correttamente intesa, aiuta a misurare e garantire il limite della politica. Per questo sanno essere ragionevoli sapendo di dover essere intransigenti. Sul piano, prima di tutto, dei loro comportamenti, della loro coerenza e della loro integrità.

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