Lorenzo Fossati – Pensare Lost. Filosoficamente……. alla televisione

Negli ultimi tempi sono stati dati alle stampe molti libri filosofici a vario titolo «divulgativi», prova che in generale sembra diffuso un bisogno di riflessione e che la filosofia, spesso malamente cacciata dalla porta, dalla finestra sempre e costantemente rispunta. Tra questi volumi, dedicati alle cose più strane – dalla noia, al vino, al viaggio – una nicchia a sé è costituita da quei titoli che richiamano un libro, un film o una serie tivù[1].
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lfok1Lorenzo Fossati

Pensare Lost

Filosoficamente …. alla televisione

 

Negli ultimi tempi sono stati dati alle stampe molti libri filosofici a vario titolo «divulgativi», prova che in generale sembra diffuso un bisogno di riflessione e che la filosofia, spesso malamente cacciata dalla porta, dalla finestra sempre e costantemente rispunta. Tra questi volumi, dedicati alle cose più strane – dalla noia, al vino, al viaggio – una nicchia a sé è costituita da quei titoli che richiamano un libro, un film o una serie tivù[1].

Penso che tutto questo sia un fenomeno interessante, e che valga la pena riflettere sulle varie «filosofie di…» o «filosofie e…». Rifacendomi a un’impostazione classica – e spero non troppo controversa – credo si possa definire «filosofica» ogni riflessione sulla connessione tra fondamento e conseguenza, tra causa ed effetto, per cui non ci sarebbe un’unica scienza e in generale un solo oggetto, nella quale e sul quale non possano esercitarsi ricerche filosofiche: noi filosofiamo non solo su Dio e il mondo, lo spirito e la natura, la virtù e il vizio, la giustizia e l’ingiustizia… bensì, come scriveva Bolzano, «possiamo filosofare anche sulla storia, la descrizione della natura, la musica, la danza e l’arte culinaria»[2]. In questo la filosofia non cessa di essere una «scienza rigorosa» – anche se questa sì è al giorno d’oggi un’idea da più parti contestata – ma più semplicemente, oltre alla ricerca del fondamento caratteristica della metafisica e della gnoseologia, essa si può dedicare anche «localmente» ai fondamenti di ambiti specifici e determinati dell’umano, e quindi dedicarsi – perché no? – a temi più leggeri quali la danza, la cucina o il cinema. Insomma si può fare «filosofia di…» in almeno due fondamentali direzioni: o considerando le implicazioni filosofiche di una certa espressione dell’umano intelletto (nel senso cioè «discendente», dell’effetto), o indagando i presupposti filosofici di essa (nel senso cioè «ascendente», della causa)[3].

Un altro modo, però, di filosofare su argomenti di primo acchito incongrui rispetto alla filosofia «alta» o tecnica, può essere quello di riflettere a partire dagli stimoli che ci possono arrivare dai più differenti cespiti; del resto nella nostra disciplina ciò che conta spesso non è tanto la tesi che si sostiene, quanto appunto la giustificazione che se ne offre, non tanto il modo con cui la si pone quanto piuttosto quello con cui la si argomenta[4]. Se è così, allora una riflessione filosofica può prendere l’avvio da qualsiasi parte, o meglio da qualsiasi nostra esperienza – quindi perché non dalla lettura di un romanzo o dalla visione di un film? Immagino che alcuni potrebbero storcere il naso di fronte a tale apertura, ma sono convinto che l’affermazione della massima serietà dell’impresa filosofica possa benissimo coniugarsi con la disponibilità a esercitarla in tutti i possibili campi, quindi anche in quelli lontani dalla filosofia accademica o, detto brutalmente, più «bassi» – ammesso e niente affatto concesso che nell’ambito culturale i criteri di «alto» e «basso» siano così univoci e inconcussi.

In ogni caso, c’è un terzo aspetto che vale la pena sottolineare, e cioè che non esiste rischio maggiore per il filosofo che rinchiudersi in una torre d’avorio speculativa. È importante che egli mantenga la sua «umanità» vivendo in mezzo agli altri uomini, cercando di avere una cultura più larga e più largamente umana possibile: un filosofo che non avesse nessun interesse per le manifestazioni spirituali del suo tempo – scientifiche, certo, ma anche letterarie e artistiche – sarebbe un filosofo assai modesto. E questo sia detto in senso sia positivo che negativo. Partendo dal secondo, bisognerà evitare il pericolo del dilettantismo, naturalmente, il pericolo che al desiderio di partecipazione alla vita culturale dell’umanità si sostituisca il desiderio di stare al corrente, di sapere che cosa si dice, che cosa si pensa, abbandonandosi alla «chiacchiera» così incisivamente descritta da Heidegger (e così caratteristica di troppi filosofi da talkshow); la serietà della ricerca nel proprio campo, in quello specificamente filosofico, è tuttavia un ottimo vaccino contro tale iattura: chi è avvezzo a lavorar sodo in una disciplina, infatti, difficilmente sarà un dilettante nel resto, essendo consapevole delle proprie forze e dei propri limiti, e coltiverà altri campi della cultura senza improvvisare una competenza che non ha. Come che sia, mi sembra ben sintetizzare quanto detto Sofia Vanni Rovighi, quando scrive che la «cultura extrafilosofica del filosofo dovrebbe servire solo di lievito al suo filosofare, dovrebbe farsi sentire non direttamente, ma indirettamente, dando un particolare sapore al suo filosofare»[5]. Venendo poi al primo senso, quello positivo, non va dimenticato che il filosofo deve essere in contatto col mondo di cui effettivamente fa parte, senza inventarsene un altro a proprio uso e consumo, senza rifiutare di considerarsi come ennesimo cooperatore al miglioramento del genere umano per quanto glielo consentirà la limitata portata sua personale e della disciplina che coltiva.

Non pretendendo di essere un critico televisivo o uno sceneggiatore, allora, vorrei provare a raccontare come e perché una serie televisiva mi piaccia così tanto, e non necessariamente perché la trovi interessanti solo dal punto di vista filosofico, ma perché a me piace e perché la seguo con vivissimo interesse. Rientrando nel novero di coloro che detestano chi anticipa finali e sviluppi di una storia, inoltre, cercherò di limitare i riferimenti alla medesima – esercizio piuttosto funambolico, in questa sede, ma come diceva Platone, il rischio è bello. Vorrei dunque qui parlare di «Lost», assurto ormai al rango di vero e proprio fenomeno di costume[6].

Dopo un terribile incidente aereo, alcuni passeggeri riescono fortunosamente a sopravvivere e si trovano «naufraghi» su un’isola deserta; presto scoprono di essere finiti molte miglia fuori rotta e le speranze di essere trovati in tempi brevi – o in assoluto – scemano di ora in ora: sono appunto lost, persi. Inoltre si scopre subito che l’isola è meno ospitale di quanto non abbiano lasciato presagire la spiaggia, le palme e la lussureggiante vegetazione… e anche i superstiti rivelano di essere molto diversi o addirittura «molto più» di quello che sembra, e questo ben al di là del naturale svolgimento della vicenda che ci conduce a una conoscenza progressivamente maggiore dei personaggi: ognuno di loro custodisce un segreto, per ognuno il viaggio così drammaticamente interrotto era decisivo, ognuno incontra e affronta i propri demoni, o più semplicemente se stesso. L’Isola (che non si può non scrivere con la maiuscola) si prospetta da subito come un non luogo, sia perché fuori dalla rotta originaria, sia perché fuori dai luoghi abituali e conosciuti, sia per altri motivi ancora (ma lo si saprà solo in seguito, e come promesso non anticiperò nulla).

Certo, quello che conta è l’avventura dei naufraghi, con i flashback che ci raccontano come e perché si trovano lì e – soprattutto – si trovano lì così, le dinamiche che si instaurano tra loro, i misteri che si infittiscono, la trama che si dipana risolvendone alcuni, ma sempre preludendo a nuovi imprevisti e imprevedibili sviluppi; tuttavia molto più importante, al di là della vicenda, è appunto il significato metaforico dell’Isola e di ogni personaggio, che incarna un «tipo umano» fondamentale: sia l’Isola che i naufraghi assurgono a un ruolo archetipico – la guida, la madre, la fuggiasca, il bandito, il padre, lo sciamano… – che potremmo addirittura definire «metafisico». Così Aldo Grasso sul Corriere della sera: «L’Isola è una entità suprema, una sorte di Grande Magnete, che genera nello stesso tempo attrazione e ripugnanza, dalla quale si tenta di fuggire ma verso la quale è impossibile non ritornare»[7]. Già, perché a fronte del «naturale» desiderio di essere salvati, si sviluppa invece in alcuni quello di non lasciare l’Isola, o la consapevolezza dell’impossibilità di farlo; e qui scatta in me il relè filosofico: come è impossibile sfuggire da se stessi, così non è possibile abbandonare il luogo ove – in modi misteriosi e diversi per ciascuno – con se stessi si fanno finalmente i conti, vale a dire l’Isola, che costringe tutti a risolverli una volta per tutte.

Ma l’habitus professionale è continuamente stimolato dai dilemmi morali che i personaggi devono affrontare giorno dopo giorno, in una difficilissima opera di discernimento su chi davvero sia l’amico o il nemico, su chi sia degno di fiducia o ci stia invece manipolando, in un faticoso e spesso disperante sforzo nella ricerca della verità, quasi impossibile da distinguere dall’inganno e dalla finzione – e questo sia nei confronti della realtà, sia nei confronti degli altri, sia soprattutto nei confronti di noi stessi. Del resto, se mai come in un’isola deserta gli uomini sono artefici del proprio destino (pensiamo a Robinson Crusoe), qui tutta la volontà dei singoli sembra viceversa preordinata a un disegno superiore e inconoscibile, in una realtà necessitata e necessitante à la Spinoza… potremmo quasi tentare la parafrasi Deus sive insula[8]. Se però una componente fondamentale del sistema spinoziano è che almeno al saggio è concesso di riconoscere la struttura della necessità, una differenza importante e niente affatto secondaria in «Lost» – almeno fino alla quinta stagione finora trasmessa –  è che non pare affatto vi sia spazio per tale ottimismo. In effetti la Modernità è una stagione in qualche modo conclusa, e se da un lato è opportuno diffidare dei vari profeti del «tramonto dell’Occidente» e del «postmoderno» in genere, dall’altro la disperazione e la sensazione di spaesamento sono caratteristiche dell’uomo contemporaneo o hanno dominato così lungamente la scena culturale da non poter non lasciare la propria traccia anche qui[9].

Spaesamento, dunque, e straniamento: non essere a casa propria, essere stranieri, essere persi e altrove – lost, ancora una volta – in un luogo non luogo caratterizzato dalle metafore che si rincorrono e dall’espressione immaginifica della complessità dell’umano[10]. Ma non erano questi gli stessi temi affrontati da un narratore così filosoficamente consapevole come Albert Camus ne Lo straniero, immagine dell’uomo reso appunto estraneo a se stesso? E in effetti, il risveglio dal «sonno dogmatico» cui ci spronava Kant, o l’andare «alle cose stesse» di Husserl, se per noi filosofi è aspirazione costante e «professionale», non è anche proprio quello cui sono costretti sull’Isola – o dall’Isola – i naufraghi? È chiaro, allora, che io mi trovi con loro in splendida compagnia, ancorché con loro condivida talvolta situazioni angosciose – ma non c’è racconto senza angoscia, e il concetto, da parte sua, non è mai hegelianamente senza fatica!

[1] Ha decisamente attirato la mia attenzione Metallica e la filosofia. Libertà, autenticità, etica: dal rock un invito a pensare, Apogeo, Milano 2008, la cui edizione originale risale a un anno fa per i tipi di Open Court di Chicago; questa casa editrice ha addirittura approntato la collana Popular Culture and Philosophy Series, secondo questi auspici: «The volumes present essays by academic philosophers exploring the meanings, concepts, and puzzles within television shows, movies, music and other icons of popular culture». Alcuni volumi sono stati tradotti anche in italiano (per esempio I Simpson e la filosofia, Isbn Edizioni, Milano 2005; Pillole rosse. Matrix e la filosofia, Bompiani, Milano 2006), ma altri no, o non ancora, e tra quelli vorrei qui senz’altro citare quelli dedicati al baseball, alla Harley-Davidson, all’iPod… Per un’idea personale, si veda: http://www.opencourtbooks.com/categories/pcp.htm

[2] Cfr. B. Bolzano, Was ist Philosophie? [1838], a cura di M.J. Fesl, W. Braumüller, Wien 1849; ora in Bolzano-Gesamtausgabe, Frommann-Holzboog, Stuttgart/Bad Canstatt 1978, vol. 2A-12/3, Vermischte philosophische und physikalische Schriften 1832-1848, a cura di J. Loužil, pp. 13-33, qui p. 17-18.

[3] E fin qui non ci siamo scostati molto dalla classica distinzione tra prima philosophia e philosophiae secundae.

[4] Con questo non si vuole certo sostenere che sia indifferente la tesi che si propone, e che una valga l’altra! Si vuole semplicemente sottolineare che proporre una tesi non è di per sé fare filosofia, e che la filosofia si ha solo nel tentativo di rendere tale tesi argomentata e giustificata; molto spesso, anzi, la filosofia non è certo il modo più «efficace» per la proposta medesima, che può essere assai più efficacemente veicolata altrimenti. Qui però non vedo alcun limite della filosofia, che non ha per suo scopo il proselitismo: spesso sono le aspettative indebite a causare le più cocenti delusioni…

[5] S. Vanni Rovighi, La coscienza del Filosofo, «Bollettino di Studium», 9 (1943), 1, p. 3; 2, p. 2; 3, p. 1, 3; qui 2, p. 2.

[6] Nel frattempo, su questo stesso tema, è uscito il libro di Simone Regazzoni, La filosofia di Lost, Ponte alle Grazie, Milano 2009, di cui però non ho potuto tener conto scrivendo queste righe.

[7] A. Grasso, La filosofia batte l’avventura, «Corriere della sera», 25 giugno 2008.

[8] Devo questo spunto a Ciro De Florio, che nel particolare è un logico, ma è anche un cultore delle narrazioni in genere, e quindi non può non essere un Lost addicted.

[9] In relazione alla diffidenza che ho suggerito, mi richiamo volentieri a quanto recentissimamente ha scritto Paolo Rossi, voce ben più autorevole della mia, nel suo Speranze, il Mulino, Bologna 2008.

[10] Per rendersi conto che suggerire spunti filosofici non è per gli autori una felice casualità, basta scorrere i nomi di alcuni personaggi: Bakunin, Bentham, Burke, Carlyle, Hume, Locke, Lewis, Rousseau… e Mr. Eko non evoca forse Meister Ekhart? Al creatore di «Lost», J.J. Abrams, dobbiamo anche «Fringe», la cui programmazione è appena cominciata negli Stati Uniti; anche questa serie, incentrata sul rapporto tra l’uomo e la Tecnica, cioè in questo caso una scienza di frontiera difficilmente domabile, è interessante e stimolante, pur se – almeno finora – meno complessa dal punto di vista dell’intreccio. Di questo però si parlerà magari un’altra volta.


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