Alessio Musio, Liberazione e risentimento

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foto– Alessio Musio –

 

 

Liberazione e risentimento. Il caso della bioetica

 

Sul piano formale, il concetto di liberazione contiene in sé implicitamente quello di soddisfazione. Nel desiderio di diventare liberi, di “essere liberarti” o di “liberarsi” di qualcosa che per varie ragioni rappresenta un peso o che impedisce di realizzare delle possibilità particolarmente care, c’è una domanda, una ricerca di soddisfazione. Una volta accettato il concetto di liberazione come soddisfacente, il passo ulteriore consiste, però, nell’andare a vedere da che cosa, concretamente, ci si intenda liberare. La partita della soddisfazione – o più sfumatamente: del miglioramento – dipende, in altri termini, anche da uno sguardo e da una valutazione che sappiano cogliere il giusto valore di ciò da cui, contenutisticamente, ci si intende liberare. Spesso accade, infatti, che, liberandosi in realtà di qualcosa di positivo, si finisce per peggiorare la propria situazione, anziché migliorarla.

Lo scarto tra liberazione e alienazione appare evidente nel fenomeno del risentimento. Secondo Scheler, il risentimento è quella tentazione sempre possibile che nasce dal conflitto fra il desiderio di una cosa e l’impotenza ad ottenerla che camuffa come negativa la cosa tanto desiderata ma non ottenuta, proprio perché non ottenibile da parte del soggetto. Poiché Scheler mostra come il risentimento sia generato nel soggetto da un insoddisfacente stato di tensione, di cui si avverte il peso e di cui ci si vuole liberare (la frustrazione del desiderio è troppo forte), è del tutto evidente che il risentimento – sul piano formale – nasce nel segno della liberazione, è l’espressione di un bisogno impellente di “diventare liberi” che diventa quasi un’idea fissa per il soggetto che lo vive.

Ma come si realizza contenutisticamente la liberazione del risentimento? Se normalmente essa viene ricercata attraverso «l’abbassamento e la negazione del valore positivo del bene» non raggiunto, in certe condizioni essa si afferma addirittura prospettando «come positivamente valido qualcosa che comunque sia in contrasto con questo bene» (M. Scheler, Il senso della sofferenza, in: Il dolore, la morte e l’immortalità, Elle Di Ci, Torino 1983, p. 66): il desiderio tenace di una cosa, ma impedito nell’accesso ad essa, viene modificato, non solo fingendoselo come inesistente, ma addirittura attraverso la dichiarazione dell’apprezzamento di ciò che è in contrasto con tale desiderio (per fare un esempio banale: si desidera intensamente una macchina, non si hanno i soldi per comprarla, e si finisce per teorizzare il valore della povertà).

Posta in questi termini, sembra trattarsi unicamente di una questione di onestà intellettuale, ma il risentimento non è solo la traduzione filosofica della favola della volpe e dell’uva: è, come dice Scheler, la fonte delle più negative illusioni assiologiche che avvelenano le immagini dell’uomo e di ciò che è bene, deprimendo la qualità della relazioni umane. Il dire male di un bene innesca un percorso di detrazione che danneggia l’insieme dell’esistenza del soggetto. Scheler fa alcuni interessanti esempi per mostrare come gli stessi rapporti possano essere avvelenati dal risentimento. Ecco che si pretende di amare un altro uomo o un’altra donna e di ottenere l’amore di quest’ultimo/a, solo per il fatto che si è – beninteso liberamente – scelto di investire tanto nel rapporto con lui/lei, oppure perché si ha l’impressione di essersi tanto sacrificati per un certo soggetto: e il problema, in questo caso, non è tanto che molto spesso questo qualcuno mai ha richiesto un tale sacrificio, ma soprattutto che quell’amore che il soggetto si prodiga ad offrire (con il buon viso della gratuità) si dimostra, alla prima avvisaglia di un non riconoscimento, come il peggiore degli esattori (è un sacrificio, in altri termini, di cui si presenta il conto). Sempre rimanendo nell’esempio, il risentimento spinge, secondo Scheler, a pensare che sia il sacrificio la fonte costitutiva dell’amore, mentre, invece, è l’amore (se c’è) che può motivare ed ammettere, e in taluni casi, il sacrificio.

Ciò che vorremo fare nel poco spazio che rimane, è proseguire idealmente nelle “spietate” osservazioni scheleriane, per rinfoltire una lista cui ciascuno può – se lo desidera – contribuire e che riguarda da vicino anche alcuni temi di bioetica. Pensiamo al caso della disabilità che ha a che fare con l’esperienza della perdita (totale o parziale) delle proprie facoltà: qui il risentimento si insinua nella confusione tra la necessità che le nostre immagini della condizione umana siano in grado di essere “messe alla prova” dalle esperienze (umane, per l’appunto) della perdita di alcune o tutte le facoltà, con la tesi dell’irrilevanza di tali facoltà. Ancora, il risentimento fa capolino nella tesi secondo cui non sarebbe lecito – a prescindere dal problema della concreta determinazione degli stessi – distinguere a livello teorico tra “normale” e “patologico” (molto spesso il linguaggio del risentimento è politicamente corretto). È confondere la possibilità di accorgersi durante l’esperienza della malattia e del dolore che essi non annullano – misteriosamente – il valore della propria personalità, con l’insostenibile tesi del valore e della bellezza della malattia e del dolore in quanto tali. Più in generale, è la tesi secondo cui – non nella prospettiva della giustizia sociale (pari opportunità), ma in quella della relazione quotidiana fra gli uomini – un soggetto debba poter avere uno spettro di azioni da compiere uguali a quello di quell’altro, pena la dichiarazione di immoralità del loro rapporto. Il risentimento opera qui suadente con il nome filosofico della “simmetria dei rapporti” che invita a “guardare in cagnesco”, e del tutto a prescindere dalla irrealizzabilità pratica della simmetria stessa, tutti quelle relazioni in cui vi è una dipendenza di qualcuno da qualcun altro. Ancora, è la tesi della negazione del valore di ogni dipendenza, perché è capitato, non sempre non per nostra colpa, di dipendere male da qualcuno o da qualcosa. Poiché, poi, il risentimento si presenta al soggetto che lo sceglie come una forma di liberazione, esso cade nell’errore di sostenere la tesi che fa dipendere il valore di una cosa dal suo essere scelta: quando si pretende che il risentimento liberi, infatti, si pretende che esso sia buono.

In ogni caso, se è vero che il cammino umano della soddisfazione è spesso “accidentato”, ciò non giustifica, però, la rinuncia alla realizzazione di sé e alla connessione tra liberazione e soddisfazione. Se il risentimento nasce, dunque, come una domanda di liberazione, essa si realizza, in primo luogo, liberandosi dall’alienazione del  risentimento stesso.

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