Paolo Gomarasca- Il meticciato e la vita buona. Percorsi possibili

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Paolo Gomarasca

Il meticciato come processo

 

Il meticciato[1], come processo di incontro e fusione di culture, accompagna da sempre la storia umana. In questa storia di mescolanze, vi sono, naturalmente, dei momenti topici: la scoperta del Nuovo Mondo e – più in generale – l’epoca dei domini coloniali, rappresenta senza dubbio un punto di emergenza di questa categoria. È noto, infatti, che la parola “mestizo” si riferisce originariamente all’unione (quasi sempre violenta, almeno all’inizio della Conquista) tra un uomo europeo e una donna indiana. È altrettanto noto che questa unione, se certamente ha cambiato per sempre il volto dell’America latina, ha avuto ripercussioni irreversibili anche sulla cultura europea: insomma, neppure i colonizzatori – come afferma Todorov – potevano uscire indenni da un simile incontro (Todorov 2006).

Non posso analizzare dettagliatamente la storia di questa vicenda; mi interessa però mostrare un aspetto che ritengo importante: a dispetto di ogni sogno paranoico di purezza (un sogno che dai famosi statuti di “limpieza de sangre” conduce, con le dovute distinzioni storiche, all’idea novecentesca di “razza superiore”), il fatto del meticciato dimostra che le persone e le culture sono originariamente e intrinsecamente miste.

Pensiamo ora alla situazione attuale: qual è il modo consueto di interpretare gli scambi e le relazioni tra le culture? Si tratta di un modo che fa i conti con la realtà, anche storica, del meticciato? Ritengo di no: il modello ancora prevalente è quello che fa capo alla cosiddetta ideologia multiculturale, in una delle sue due versioni principali:

 

(a) la versione assimilazionista, che tende ad eliminare tutte le differenze culturali, riducendole al dominio (coloniale?) della cultura occidentale;

(b) la versione differenzialista, decisamente di moda oggi (vista la crisi d’identità dell’Occidente), secondo la quale le culture sono come “pezzi da museo”, “isole cognitive” fisse e immutabili, da lasciare per conto proprio.

 

Qual è dunque il difetto della prospettiva multiculturale, soprattutto nella versione differenzialista? Esattamente la pretesa ideologica di pensare che le culture sono come le monadi leibniziane, senza porte né finestre. Come fa giustamente notare Donati, «il limite intrinseco del multiculturalismo, sotto ogni punto di vista (epistemologico, morale e politico), è la mancanza di relazionalità fra le culture che esso istituzionalizza» (Donati 2008, 30).

Come si fa a pensare altrimenti? Un aiuto può venire dall’antropologia culturale: malgrado un passato di connivenza con i regimi coloniali, spetta alle scienze etno-antropologiche la “scoperta” che le culture non sono blocchi monolitici, bensì processi mai conclusi di autocomprensione e di interscambio con altre culture. Insomma, le culture – come dice ad esempio Clifford – sono “viaggi” (travelling cultures) (Clifford 1997, 16). E si sa che, viaggiando, le persone e le culture si incontrano e possono, per l’appunto, meticciarsi.

Naturalmente anche la metafora del viaggio può diventare ideologica: contro la fissazione (reificazione) delle culture, l’invito sarebbe quello di vagabondare nel mondo, prendendo un po’ di questo e un po’ di quello. In fondo, come spesso si dice, le identità non contano nulla, conta solo il fatto di potersi trasformare, adattandosi alle nuove situazioni (o alle nuove mode).

Credo però che sia legittimo dubitare di questo “ibridismo turistico”: è proprio vero che tutto si mescola gioiosamente con tutto? Come si può pretendere che le ibridazioni siano sempre e comunque liberatorie per le persone e per le culture? Il passato coloniale e l’interminabile tragedia della violenza etnica ci suggeriscono quantomeno un po’ di prudenza. Oltre tutto, nemmeno l’ideologia dell’ibridismo riesce veramente a pensare il fatto del meticciato: questo fatto implica la genesi di un’identità culturale a partire dall’incontro e dalla relazione tra due identità culturali; l’ibridismo, al contrario, non pensa in termini di identità, bensì – potremmo dire – in termini di flusso.

Bisogna allora evitare gli estremi ideologici:

 

(a) né differenzialismo (identità senza flussi, cioè identità chiuse, fisse);

(b) né ibridismo indiscriminato (flussi senza identità).

 

Per far ciò, occorre capire innanzitutto se è vero che l’identità umana è relazionale: detto all’inverso, è vero che non si può essere umani da soli? Una volta stabilito questo, è necessario poi chiedersi qual è la natura di questa relazionalità: in altri termini, quando si dice che l’identità umana esiste solo in relazione ad altre identità umane, di quale relazione stiamo parlando? Di che tipo di relazione ha veramente bisogno un’identità per essere umana? A quel punto potremo porre due ulteriori questioni. La prima (di natura etica): che cosa ci permette di dire che una relazione intersoggettiva (o interculturale) è degna dell’umano, rappresenta – cioè – un’esperienza di bene umanamente indispensabile? La seconda: il fatto del meticciato sovverte questa esperienza di bene, questa “vita buona”, oppure è un modo (eventuale) di tradurla? Ovviamente, la risposta a quest’ultima questione non intende dedurre il fatto del meticciato da principi astratti (sarebbe assurdo, oltre che gravemente ingenuo). Si tratta, casomai, di vedere se i processi concreti di meticciato contengono degli indizi della vita buona personale e sociale.

 

 

La vita buona personale e sociale

 

La qualità della relazione è dunque il punto da pensare, per delineare i contorni della vita buona. La questione umanamente decisiva è se siamo in grado di costruire legami sociali, senza dimenticare che abbiamo a che fare con persone e non con semplici cose. In altri termini: è degno dell’umano riconoscere se stessi e gli altri come soggetti. Trattare se stessi e gli altri come cose è, invece, l’anticamera della violenza. Questa logica riconoscitiva (che ha un impianto hegeliano) è allora anche un’etica: implica poter stabilire che la vita buona per l’uomo è quella dove accade il libero e reciproco riconoscersi delle soggettività in gioco.

Ora, quali sono concretamente i luoghi dove questa vita buona diventa esperienza? Ne indicherò due:

 

(a) la famiglia, che – come dice lo stesso Hegel – è il primo luogo dove la logica del riconoscimento si incarna;

(b) la società civile, intesa come spazio pubblico (non statale), dove le persone e le culture si incontrano e cooperano in vista di quella che Alexander definisce una “comprensione sociale condivisa” (shared social understanding) (Alexander 1997, 119).

 

La nostra domanda allora diventa: questi luoghi sono in grado di ospitare fenomeni di meticciato, senza tuttavia venir meno come luoghi di vita buona?

 

(a) Prendiamo in considerazione il caso emblematico delle cosiddette “famiglie miste”. Uno degli esiti più significativi del processo migratorio è infatti l’aumento di “matrimoni interrazziali”. Come valutare questo fenomeno di meticciato biologico e culturale? Come il segno di un’integrazione perfettamente riuscita? Le cose non sono così semplici. Le coppie miste non incontrano spesso il favore del contesto sociale. Anzi, vi sono veri e propri fenomeni di discriminazione. A ciò va poi aggiunta la difficoltà intrinseca a trattare la differenza dell’altro: a parte un momento iniziale di fascinazione, il fantasma della diversità irriducibile dell’altro può risvegliarsi in maniera scioccante.

Malgrado queste difficoltà, sarebbe ingiusto trascurare la rilevanza di questo fenomeno. La famiglia mista, tanto per cominciare, non può concedersi il lusso dell’ideologia differenzialista: o le singole appartenenze culturali trovano il modo di raccontarsi insieme, oppure non esiste convivenza possibile. In secondo luogo, questo “raccontarsi insieme” esclude che si tratti di ibridismo indiscriminato. È in gioco qualcosa di diverso, che possiamo definire in termini di cura della cultura dell’altro, o meglio: cura delle radici culturali del legame (Falicov 1995).

In che senso, dunque, la cura può evitare gli estremi ideologici di cui abbiamo detto? Innanzitutto, evita il differenzialismo perché impedisce che le identità culturali si chiudano in se stesse; in secondo luogo, evita l’ibridismo perché non cancella le singole identità, ma promuove, attraverso il reciproco riconoscersi, la costruzione di un’identità meticcia condivisa.

Potremmo allora che questo è un primo modo di orientare il meticciato alla vita buona: la cura immette il processo di mescolanza entro una dinamica concreta di riconoscimenti, attraverso cui la famiglia mista viene pensata e vissuta come dimora ospitale di legami degni dell’umano.

 

(b) Ciò detto, vale la pena fare una precisazione: le famiglie miste sono solo un esempio e non una teoria sull’integrazione culturale. Così, continuando la nostra ricerca di luoghi (e non di teorie) dove l’esperienza del riconoscimento è possibile, l’attenzione si concentra sulla società civile.

Tralascio la storia delle interpretazioni e cerco di arrivare subito a quel concetto di “comprensione sociale condivisa” espresso da Alexander. Che cosa significa? Si tratta, anche a questo livello, di non venir meno alla struttura relazionale che abbiamo posto a fondamento della vita buona: concretamente, significa pensare che una società non è civile semplicemente perché fa l’elogio delle differenze culturali (cosa che non porterebbe da nessuna parte); una società è civile nella misura in cui favorisce il fatto che le persone sono in grado di costruire quello che Habermas chiama un “mondo di vita (Lebenswelt) sociale” (Habermas 1979, 91). Con ciò non si intende la semplice somma dei mondi di vita particolari, bensì la scoperta che le nostre differenze sono modi diversi di incarnare una comune dignità umana.

Questo significa smettere di pensare in termini di contrapposizioni reattive del tipo “noi”/“loro”: significa cominciare a pensare in termini di una we-ness (come dice Alexander) che coinvolge sia “noi” che “loro” nell’impresa di generare legami di solidarietà anche tra persone che non condividono la medesima cultura. Il termine solidarietà non dev’essere però equivocato: non si tratta di una retorica dei “buoni sentimenti”; si tratta di pensare che c’è un modo di essere in relazione con gli altri per cui ne va della nostra umanità. Insomma, certe relazioni sono un bene indispensabile, tanto per i singoli (persone o culture), quanto per l’intera società. Il che spiega come mai Habermas – e non solo lui – ritiene che il nucleo del “civile” sia costituito dalle alleanze e dalle associazioni volontarie, di tipo non statale né economico: sono queste esperienze cosiddette di privato sociale il luogo dove si scopre il valore universale (transculturale) del riconoscimento reciproco.

Ora, è possibile che in questo luogo avvengano meticciati? Risponderei ponendo un’altra questione: qual è la situazione concreta in cui si trova un immigrato? È la situazione, talvolta drammatica, di essere-tra: tra la cultura d’origine e la cultura che lo accoglie. Quali scelte ha? Normalmente si pensa che non ci siano alternative tra irrigidirsi, rivendicando i propri tratti d’origine, oppure alienarsi completamente. Ma forse un’alternativa esiste. Il “civile” mi pare infatti il luogo di una scelta diversa: la scelta di ritrovare se stessi insieme ad altri. È allora inevitabile che questo modo di pensarsi in comune con altri conduca le identità culturali, sia quella d’origine dell’immigrato, sia quella d’accoglienza, a realizzare un prezioso lavoro di mediazione e traduzione, che può anche prendere la forma del meticciato.

Siamo dunque destinati alla fusione anarchica delle differenze, al bricolage infinito delle identità? Anche qui, come nel caso delle famiglie miste, è necessario porre una misura non valicabile, superata la quale non ci troviamo più in uno spazio “civile”, ma nel “non-luogo” degli ibridismi caotici: questa misura, che potrebbe valere come un secondo modo per orientare il meticciato alla vita buona, potremmo chiamarla – con un altro termine habermassiano – “co-appartenenza” (Habermas 1997, 97). Habermas usa questo termine per definire la relazionalità specifica del “civile”: l’idea, in breve, è che non esiste Stato democratico di diritto senza presupporre un senso di dedizione dei cittadini al bene dell’essere-insieme. Ora, se questo sentirsi-parte viene tenuto fermo, se – cioè – viene garantito, allora i molteplici processi di mediazione interculturale che avvengono nella società civile possono dare luogo a “meticciati” che non solo non mettono a repentaglio la vita civile, ma potrebbero anche arricchire il bene della convivenza democratica. Il che ci porta all’ultimo passaggio: per garantire il bene dell’essere-insieme, assumendolo come bene comune, è necessario un buon governo.

 

Il buon governo

 

È certo che la co-appartenenza, intesa come we-ness, come solidarietà sociale, non è un prodotto istituzionale: non spetta né allo Stato né al mercato inventare qualcosa che, per sua natura, è pre-politico. Del resto, tutto le volte che lo Stato o il mercato “colonizzano” questa sfera relazionale originaria, possono verificarsi derive totalitarie o individualistiche: la logica del riconoscimento verrebbe sostituita dalla logica burocratica o dalla logica del profitto.

Ciò detto, sarebbe altrettanto deleterio credere che il “civile” sia autosufficiente: il pre-politico potrebbe trasformarsi in non-politico, o, addirittura, in anti-politico. Il che, ovviamente, significherebbe l’anarchia. A quel punto, anche gli eventuali meticciati non tarderebbero a diventare caotiche ibridazioni, perché la società civile, senza una politica (e un’economia) che si faccia carico di proteggere e promuovere il senso di coappartenenza, diventerebbe – come dice Totaro – «il ventre molle della convivenza» (Totaro 2002, 46), felice metafora che indica il liquefarsi della vita degna dell’umano. Ragione per cui la società civile ha bisogno di un “buon governo”, cioè di una politica che ne assecondi le tendenze più valide e di un’economia che ne arricchisca il potenziale di convivenza.

Non entro qui nel dettaglio di questo ripensamento delle istituzioni. Mi interessa però fare un rilievo finale: mi pare chiaro che senza vita buona, cioè senza logica del riconoscimento, non esisterebbe buon governo, bensì derive totalitarie o individualistiche; viceversa, senza buon governo, cioè senza garanzie istituzionali che sanciscano l’inviolabilità di certi beni fondamentali, non ci sarebbe vita buona, bensì, anarchia. Ora, tutte queste forme patologiche (totalitarismo, anarchia, individualismo) conducono, presto o tardi alla violenza.

Certo, nessuno può scongiurare questa eventualità: la vita buona, infatti, non è per nessuno un possesso definitivamente acquisito. Assomiglia, piuttosto, a quel «tortuoso cammino verso l’umanità condivisa» di cui parla Bauman (Bauman 2002, 37). Nel frattempo, e senza chiederci il permesso, i meticciati continuano ad avvenire, talvolta facendoci deviare da quel cammino, talvolta rendendolo solo più tortuoso. Oppure, perché no, rendendolo più semplice, magari per il fatto di far balenare improvvisamente la comune dignità umana che diversamente incarniamo e verso cui dobbiamo camminare. La sfida allora è aperta, purché naturalmente non smettiamo di muoverci in questa direzione.

 

18 Aprile 2009

 

Bibliografia

 

Alexander, J.C., La società civile democratica: istituzioni e valori, in P. Donati (a cura di), L’etica civile alla fine del XX secolo, Mondadori, Milano 1997, pp. 107-153.

Bauman, Z., Il disagio della postmodernità, tr. it. di V. Verdini, Mondadori, Milano 2002.

Clifford, Strade. Viaggio e traduzione alla fine del xx secolo, tr it di M. Sampaolo e G. Lomazzi, Bollati Boringhieri, Torino 1997.

Donati, P., Oltre il multiculturalismo. La ragione relazionale per un mondo comune, Roma-Bari, Laterza, 2008.

Falicov, C.J., Insegnare a pensare secondo cultura. Una convince comparativa multidimensionale, in «Psicobiettivo», 20 (2000), 1, pp. 61-86.

Gomarasca, P., Meticciato: convivenza o confusione?, Marcianum Press, Venezia 2009.

Habermas, J., Per la ricostruzione del materialismo storico, tr. it. di F. Cerutti, Etas Libri, Milano 1979.

Habermas, J., Solidarietà tra estranei. Interventi su “Fatti e norme”, tr. it. di L. Ceppa, Guerini e Associati, Milano 1997.

Todorov, T., La conquista dell’America. Il problema dell’altro, tr. it. di A. Serafini, Einaudi, Torino 2006.

Totaro, F., La dimensione storica e teorica: la società civile nella filosofia politica e nella prassi, in R. Gatti – M. Ivaldo (a cura di), Società civile e democrazia, AVE, Roma 2002, pp. 23-48.

 

[1] Queste riflessioni sono un tentativo di sintesi della ricerca che la Fondazione Oasis di Venezia (www.oasiscenter.eu) mi ha incaricato di condurre sulla categoria di meticciato (cfr.Gomarasca 2009).


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